Non si fa credito a nessuno! 5 consigli per rispettare il diritto d’autore in fotografia

Consigli utili per rispettare il diritto d'autore in fotografia

“Buongiorno, ho allegato le fotografie dell’evento. Per quanto riguarda i crediti, come possiamo gestirli?”
“Ciao Emanuela, grazie! Ti suggerisco di evitare di apporre la firma direttamente sulle foto; di solito, nella redazione, ritagliano le immagini in modo che le scritte non siano visibili.”
“Va bene. Allora ti fornisco la dicitura da inserire nella didascalia: ‘Foto di Emanuela Amadio’.”
“Mi dispiace, ma non posso garantirti che verrà pubblicata. Non rientra nelle politiche del giornale.”

Dopo qualche giorno, l’articolo è stato pubblicato con la tanto agognata didascalia che attribuiva i crediti alle mie foto. Tuttavia, oltre alle immagini che avevo inviato, il giornale ha incluso anche altri scatti sfocati realizzati con uno smartphone, erroneamente attribuiti a me.
Questo scambio di messaggi è tratto da una storia vera, avvenuta circa dieci anni fa, in occasione di un evento culturale che avevo seguito in qualità di fotografa.

No, non si tratta di disattenzione. È prassi comune in molte testate giornalistiche, sia grandi che piccole. Il rispetto del diritto d’autore in fotografia, attraverso la citazione dei cosiddetti crediti, viene spesso considerata superflua e sacrificabile, a differenza di quanto accade per chi firma l’articolo.

Come si comportano le riviste Come si comportano i magazine online in relazione al diritto d'autore in fotografia

Diritto d'autore in fotografia e quotidiani: alcuni esempirispetto del diritto d'autore in fotografia: come si comportano i quotidiani nazionali

Eppure le immagini giocano un ruolo importante nel racconto di un evento, in un’inchiesta di cronaca o sulla pagina di apertura di un qualsiasi quotidiano. Sono il punto in cui l’occhio si posa, ancor prima dei titoli di giornale.

Questa noncuranza per le immagini nasconde una cultura fotografica manchevole, soprattutto in Italia.

Diritto d’autore in fotografia: come si comportano le testate giornalistiche?

Basta osservare i principali quotidiani nazionali per capire quanto le fotografie siano considerate una produzione di serie B.

Diritto d'autore in fotografia: l'esempio del Corriere della Sera
Screenshot da Il Corriere della Sera: non sono presenti didascalie né crediti

 

Diritto d'autore in fotografia: l'esempio di RaiNews
Screenshot da Rainews. Breve didascalia e agenzia

 

L'esempio di The Guardian e il diritto d'autore in fotografia
Screenshot da The Guardian, didascalia completa con descrizione, autore, agenzia e piattaforma

 

Gli scenari più ricorrenti sono tre, come si può vedere dagli screenshot dei siti web di alcuni quotidiani presi in esame:

  • la didascalia manca completamente.
  • viene menzionata solo l’agenzia da cui il giornale ha acquistato l’immagine
  • viene descritta l’immagine senza citare il fotografo che l’ha realizzata


Il primo passo per attivare un cambiamento è diventare fruitori consapevoli. Dobbiamo riconoscere che l’immagine, proprio come l’articolo che stiamo leggendo, è stata creata da un/a professionista che possiede competenze tecniche, esperienza e la capacità di leggere e interpretare il contesto.

Xavier Desmier, autore della fotografia utilizzata da The Guardian
Sito web del fotografo Xavier Desmier, autore della fotografia utilizzata da The Guardian

Come rispettare il diritto d’autore in fotografia? Indicazioni e consigli per utilizzare correttamente il materiale fotografico

Cosa possiamo diventare, concretamente, dei fruitori consapevoli?
Ecco cinque semplici consigli per rispettare il diritto d’autore in fotografia e contribuire a diffondere la cultura fotografica!

  1. Quando pubblichi una foto famosa sui social media, puoi inserire una didascalia che cita l’autore o l’autrice dell’immagine. Se hai a disposizione informazioni come luogo e anno dello scatto, puoi aggiungerle.Esempio di post social che rispetta il diritto d'autore in fotografia
  2. Quando pubblichi una foto che ti ritrae, puoi inserire il tag della persona – amatore o professionista – che ha scattato la tua nuova foto profilo. È un modo concreto per esprimere gratitudine e comunicare chiaramente che la foto non è un autoritratto, ma è stata realizzata per te da qualcun’altro;Esempio di post social in cui viene rispettato il diritto d'autore in fotografia
  3. Mentre svolgi una  ricerca di immagini sul web, presta attenzione alle fonti fotografiche e privilegia siti attendibili che forniscono crediti e informazioni dettagliate sulle fotografie. Effettuare una ricerca inversa con strumenti come Google Lens può aiutarti a verificare le fonti fotografiche e fugare ogni dubbio;Fotografia e rispetto del diritto d'autore
    Ricerca fotografica sul web e diritto d'autore in fotografia
    In molti siti web italiani la foto è erroneamente attribuita a Henri Cartier Bresson, ma In realtà si tratta di uno scatto di Martine Frank, seconda moglie di Bresson. Basta verificare sul sito dell’Agenzia Fotografica Magnum

     

  4. Quando trovi una foto che ti piace durante una ricerca sul web, rinomina il file nel momento in cui lo scarichi sul tuo dispositivo, includendo i crediti fotografici. In questo modo, sarà più facile ritrovarla in futuro e condurre ulteriori ricerche sulla produzione del fotografo;Rispettare il diritto d'autore in fotografia: esempi pratici
  5. Nella creazione di locandine o materiali visivi, ricordati di inserire i crediti delle fotografie usate come sfondo. Se stai cercando immagini liberamente utilizzabili e modificabili per i tuoi progetti grafici, puoi consultare archivi online come Pexels o Unsplash, che offrono foto con licenze Creative Commons.

Il percorso per essere fruitori consapevoli inizia qui, dalle piccole azioni quotidiane, come condividere contenuti visivi sui social o fare ricerche fotografiche online. Citare l’autore o l’autrice di uno scatto non è solo un comportamento gentile, ma un modo concreto per contribuire a diffondere la cultura fotografica nel rispetto del diritto d’autore.

Quali di questi consigli mettevi già in pratica?
Lasciaci un commento per raccontarci la tua esperienza.

Bullismo: perché accade, come riconoscerlo e come affrontarlo a casa e a scuola. Intervista a Giorgio Conti, Psicologo Psicoterapeuta.

Bullismo: perché accade e come riconoscerlo | Ne parliamo con il Dott. Giorgio Conti, Psicologo Psicoterapeuta

L’ultima campagna di monitoraggio per valutare su larga scala la presenza e l’andamento dei fenomeni di bullismo e cyberbullismo nelle scuole italiane mostra risultati sui quali occorre fermarsi a riflettere. Il Ministero dell’Istruzione ha reso noti i dati sulla piattaforma ELISA (formazione in E-Learning degli Insegnanti sulle Strategie Antibullismo), risultato dell’indagine svolta nell’anno scolastico 2021/2022 e alla quale hanno partecipato studenti e docenti.

Al monitoraggio hanno partecipato 314.500 studenti che frequentano 765 scuole statali secondarie di secondo grado e 46.250 docenti di 1.849 Istituti Scolastici statali. Il 22,3% degli studenti e studentesse delle scuole superiori è stato vittima di bullismo da parte dei pari, mentre Il 18,2% ha preso parte attivamente a episodi di bullismo verso un compagno o una compagna.

Alla luce di ciò che raccontano i dati abbiamo voluto approfondire l’argomento con Giorgio Conti, Psicologo Psicoterapeuta e profondo conoscitore del potere della parola. Suo è infatti il progetto Write Club Lab che dal 2012, attraverso le possibili applicazioni della scrittura e della lettura, promuove la narrazione come forma di espressione personale, per la salute, il benessere e la crescita personale.

Bullismo perché accade, come riconoscerlo e affrontarlo | intervista al Dott. Giorgio Conti Psicologo Psicoterapeuta
Il Dott. Giorgio Conti, Psicologo Psicoterapeuta

Partiamo dalle presentazioni: chi è Giorgio Conti?
Sembra una domanda semplice ma non lo è. Se dovessi parlare di me mi verrebbe spontaneo raccontare una storia. Faccio un piccolo inciso. Ho visto il vostro lavoro e quello che fare sul sito e le vostre interviste. Vedo che siete delle buone penne. Grazie per lo spazio e per l’intervista.
Nasco con una formazione tecnica da disegnatore meccanico, che mi permette di lavorare subito dopo il diploma. Questa è stata la mia prima vocazione, ma subito dopo mi sono reso conto che gli sbocchi lavorativi non erano quelli ai quali avrei ambito. Così ho deciso di investire ciò che avevo messo da parte per continuare la mia formazione e intorno ai 24 anni ho iniziato il percorso universitario. A quest’ultimo ho abbinato il percorso da agevolatore nelle relazioni individuali e nei gruppi. Inoltre, mi è capitato durante l’università di avere esperienze con la scrittura presso l’Università di Chieti, polo di eccellenza sulle neuroscienze. Ho avuto occasione di prendere parte ad una ricerca sulla scrittura, si trattava in particolare dell’adeguamento delle ricerche condotte da Pennebaker sul campione italiano. A fine ricerca ho chiesto informazioni e quella è stata la prima volta in cui ho ascoltato il nome di questo ricercatore, Pennebaker. Inoltre, ebbi l’occasione di svolgere un semestre di approfondimento presso la stessa cattedra che proponeva questa ricerca. In sei mesi ho avuto la possibilità di confrontarmi con tutte le ricerche di questo autore, dal primo articolo di Pennebaker del 1986 ritenuto significativo a tanti altri lavori successivi. Pennebaker utilizza la scrittura come psicologo sociale, in contesti sociali. Avevo già intuito il potere della parola, ma quell’incontro mi ha fatto incontrare la scrittura come contesto di applicazione della parola intimo e privato. Mi sono, così, appassionato a questo ambito, ho completato il percorso universitario e da agevolatore (counseling), e dopo l’università ho conseguito la specializzazione, orientamento psicoanalitico, perché mi sembrava il modello più interessante, più ghiotto, quello che fa vedere maggiormente le radici dello sviluppo della mente. Credo di aver tratteggiato chi sono. Sono colui il quale lavora a ridosso di questi ambiti:  scrittura e psicoterapia.

Noi che ti conosciamo un po’ di più rispetto alle persone che leggono sappiamo che ti occupi di benessere psicologico. Per questo vorremmo affrontare con te il tema del “Bullismo”. Da dove partire per inquadrare il fenomeno?
Sicuramente intuite bene quando identificate questo fenomeno come complesso articolato e centrato su un aspetto emotivo. Per parlare di un tema articolato e complesso come quello del bullismo bisogna creare una cornice che più è ampia e maggiormente descrive la situazione. Ci sono 3 aspetti da considerare: personale, sociale e ambientaleCi troviamo, infatti, davanti ad una persona che agisce in un contesto relazionale e in un ambiente più ampio, che lo circonda. La comparsa del fenomeno solitamente avviene tra i 12 e i 17 anni , anche se ci sono delle forme precoci che compaiono già a 11 anni. Perché in questa fase? Perché compare l’adolescenza, periodo che mette in gioco tutte le acquisizioni che l’individuo ha fatto negli anni precedenti.
Può risultare controintuitivo pensare che essere persone migliori origini dalla capacità che abbiamo appreso di superare momenti di difficoltà, di accettare e tollerare emozioni negative e far fronte a situazioni di angoscia. La mente non nasce dalle esperienze positive, la mente nasce dalla capacità di affrontare esperienze altamente impattanti con un valore emotivo negativo. Tutto questo è controintuitivo e può riassumere con una frase di Gibran: più il dolore ti scava dentro, più saprai contenere amore.
Un ambiente troppo confortevole e con pochi stimoli non ha mai fatto crescere nessuno. Sono le difficoltà a farci crescere.
In adolescenza succede proprio questo: si mettono in discussione tutte le acquisizioni possedute. Le capacità sviluppate si mettono in campo e si consolidano, mentre emergono le difficoltà che si sono verificate nel percorso evolutivo dell’individuo. Questo perché l’essere umano ha una tendenza innata alla conflittualità: l’individuo nascente si divide tra riposo e angoscia ed è il genitore che di volta in volta, relazionandosi con il bambino e offrendogli delle cure, permette al bambino di interiorizzare un modello che consente una forma di accettazione e contenimento delle emozioni più negative. Un po’ come se il genitore inculcasse nel bambino la fiducia che ciò che sta sentendo è qualcosa di transitorio e che può essere superato in modo positivo. Quando questo messaggio non arriva da parte del genitore, durante l’adolescenza tende ad emergere un’incapacità che possiamo definire incapacità di contenere. Se presente è bene che venga fuori durante il periodo adolescenziale poiché quest’ultimo rappresenta ancora un valido momento per l’apprendimento.
In merito alla dimensione sociale, invece, anche nei gruppi è importante un momento conflittuale. Uno psicologo che ha svolto importanti studi sui gruppi, Tuckman, afferma che un gruppo diventa un gruppo di lavoro quando affronta un momento conflittuale. Questa fase viene definita dallo stesso autore storming e in caso di mancanza il gruppo resta un gruppo formale. Tale dimensione la riscontriamo in tutti i contesti sociali: prendiamo, ad esempio, i nostri 18 anni. Rappresentano un momento di iniziazione verso l’età adulta e, come tutti i percorsi di iniziazione presentano un momento conflittuale.
Infine, l’ultimo aspetto da considerare quando parliamo di bullismo è l’ambiente. Quest’ultimo assume durante il periodo adolescenziale il ruolo che ha avuto il genitore della prima infanzia. Per questo da una parte è importante che sia presente, dall’altro che non abbiamo lo stesso ruolo del genitore se quest’ultimo non è stato sufficientemente attento. L’emergere di aspetti conflittuali durante la prima adolescenza è fisiologico, assume rilevanza a livello negativo nel momento in cui questo passaggio non trova risposta nella domanda che il giovane rivolge ai pari e al contesto sociale. 

A partire dal 2017, con la legge n°71, distinguiamo tra Bullismo e Cyberbullismo. I due fenomeni hanno caratterizzazioni proprie, ma anche aspetti in comune, come il mancato riconoscimento dell’altro/a. Cosa c’è alla base di tali manifestazioni?
Cogliete il cuore del fenomeno. Credo sia sempre difficile dare una risposta a tratti definitiva, perché la soggettività umana è qualcosa di così vario che è impossibile generalizzarla. Le ricerche che ha fatto Wells, psicologo svedese, parla abbastanza chiaro e mette al centro le capacità emotive. Il bullo e la vittima hanno un aspetto che li accomuna: una bassa intelligenza emotiva, ossia una bassa capacità di riconoscere le emozioni.
Le emozioni sono un metodo di comunicazione primordiale e al tempo stesso estremamente efficace, con una funzione sociale ben precisa. Nel momento in cui non si riesce a capire cosa c’è dentro le emozioni e cosa dicono di noi, può capitare di ritrovarsi in situazioni e contesti estremamente imprevedibili. Questo è l’aspetto centrale del problema.
Cosa accade quindi? Le emozioni hanno un ruolo importante: mettere in relazione le persone, creare legami. Il bullismo, più del cyberbullismo ha la capacità di creare relazioni estremamente forti. D’altra parte la ricerca di relazioni forti è uno degli aspetti che caratterizza la fase adolescenziale, momento in cui ragazzi e ragazze iniziano ad allontanarsi dal nucleo familiare per abbracciare una realtà più ampia e indefinita. 

Non è inusuale pensare che gli episodi di bullismo richiedano un intervento a favore della vittima. In realtà sappiamo bene che anche il bullo/a ha bisogno di aiuto. In caso di tali fenomeni, in quale direzione dovrebbe andare un intervento educativo efficace?
Un intervento dovrebbe andare nella direzione di fornire delle occasioni sociali che possano in qualche modo dare quel tipo di ascolto e di contenimento che precedentemente è stato carente. È importante che gli adolescenti possano esprimere quello che sentono.  Quando noi esseri umani manifestiamo un comportamento che può assumere tratti eccessivi o patologici, non funzionali, siamo sempre in presenza di un’espressione che è il risultato di una drammatizzazione all’esterno di un processo che sta avvenendo nell’interiorità dell’individuo. Questo per dire che la prima necessità è sempre quella “consapevolezza”. Il primo aspetto è sempre quello di poter esprimere ciò che si sente. Creare un ambiente in cui ci si può esprimere è fondamentale. Superata questa prima fase, è altrettanto importante fornire uno spazio espressivo in cui la corporeità assume un ruolo preponderante, la cui riuscita dipende anche dalle capacità di ognuno di noi, dalla formazione e dal saper accogliere l’altro. Uno spazio in cui bisogna parlare e anche agire, perché l’azione è l’aspetto principe dell’adolescenza. Uno spazio in cui poi si può parlare anche di relazioni sociali. L’aspetto delle emozioni e degli affetti in questo modo compare quasi da sé. Sicuramente non va considerato soltanto il bullo altrimenti non si va ad alleggerire il fenomeno. 

Nel contributo pubblicato da PISANO L., SATURNO M.E. (2008), Le prepotenze che non terminano mai, in «Psicologia Contemporanea», 210, 40-45, gli autori stilano alcune caratteristiche che differenziano bulli/e e cyberbulli/e e, al tempo stesso, mettono in evidenza come il bullismo sia un fenomeno legato al contesto scolastico e al gruppo dei pari. Quali sono le figure che in questa fase dell’età evolutiva possono contribuire a contrastare il fenomeno?

Le vostre domande sono estremamente interessanti. Spenderei prima due parole per differenziare cyberbullismo e bullismoI due fenomeni hanno come aspetto in comune la prevaricazione e la vittimizzazione verso una persona, quindi la messa in campo di comportamenti definibili aggressivi, un’insicurezza sia da parte del bullo sia della vittima, la sofferenza psicologica e fisica della vittima.
La differenza principale consiste nel fatto che il cyberbullo, rispetto al bullo,  mantiene anonimato e distanza. Per questo il cyberbullismo rappresenta un fenomeno meno evidente e meno appariscente. Il sintomo non è “visibile” ed è bene tenerne conto perché proprio il sintomo è un primo passo verso la guarigione.
Si parla molto della presa in carico di équipe in cui ci sono diverse figure e ognuna si focalizza su un aspetto o su un destinatario del fenomeno. Meritano attenzioni gli individui che ricoprono il ruolo di bullo, vittima, ma anche il gruppo dei pari, in una posizione intermedia tra la parte del fenomeno direttamente chiamata in causa e l’ambiente, attraverso forme di compartecipazione.
Infine, c’è una dimensione individuale e sociale del problema nella quale entrano anche gli adulti, ossia gli insegnanti, i genitori e tutte le persone che possono assistere al fenomeno. Il bullismo può essere considerato come una ricerca di attenzioni. Ognuno di noi diventa potenzialmente soggetto di intervento se assiste a determinati fenomeni. 

 

Bullismo: perché accade, come affrontarlo e come riconoscerlo a casa e a scuola
Per comprendere il fenomeno del bullismo è necessario delineare una cornice più ampia sulla quale riflettere

La famiglia rappresenta la prima agenzia di socializzazione, il luogo anche fisico nel quale fin da bambini si inizia a costruire relazioni con gli altri. In che misura è responsabile nel momento in cui un/a figlio/a veste i panni del bullo/a e in che modo può influire nelle azioni di prevenzione, tutela e contrasto del fenomeno?
Io mi rifaccio sempre alle ricerche di Dan Olweus che se da una parte sono datate, dall’altra sono quelle che hanno tracciato le direttive secondo cui identificare il fenomeno del bullismo. Dalle sue ricerche emergono diversi aspetti:

  1. il  contesto familiare che ricorre nei soggetti bulli è un ambiente familiare che da una certa età in poi è assolutamente permissivo, non pone limiti e non responsabilizza. Non è sufficientemente attento al proprio ruolo genitoriale, ossia saper dire NO mantenendo la relazione. 
    Il genitore, fin dai primissimi mesi di vita dei bambini, deve mediare, tollerare fino ad un certo punto e poi intervenire. Il ruolo del genitore è quello di essere presente pur dando libertà al bambino di dare forma alla sua identità. Nel momento in cui non sono presente io declino la responsabilità genitoriale. Il bullo urla un’esigenza di relazione. 
  2. una prima infanzia caratterizzata da genitori che utilizzano anche punizioni fisiche.
  3. forte presenza genitoriale nella prima infanzia che scompare non appena il bimbo diventa un piccolo adulto.
  4. scarsa presenza emotiva del genitore nella primissima infanzia. 

I paesi del nord hanno una particolare attenzione all’accudimento dei giovani. Un esempio? Avere spazi all’interno degli ambienti lavorativi dedicati ai figli. Ciò non significa che i paesi del Nord Europa sono migliori degli altri Stati membri, ma è innegabile che la presenza emotiva in alcuni casi è difficoltosa se non assente. 
Cosa può fare il genitore? Questa è una domanda complessa e difficile. Da un certo punto di vista il bullismo è un fenomeno che nasce all’interno dell’ambiente affettivo familiare e in questo senso è difficile pensare che il genitore possa fare qualcosa personalmente. Ci sono casi in cui, a prescindere dalle intenzioni, i fattori ambientali sono preponderanti anche quando siamo in presenza di genitori “perfetti”, ovvero genitori sufficientemente buoni, presenti e capaci di dare la giusta libertà, subentrano altri fattori come traslochi, spostamenti, allontanamenti di vario tipo all’interno del nucleo familiare che seguono lo sviluppo, la crescita e l’esperienza del giovane.
La prima cosa che può fare un buon genitore è quello di porsi domande. Non deve dare soluzioni, ma interrogarsi su ciò che sta accadendo e sulla sua posizione rispetto a ciò che sta accadendo. In adolescenza è ancora più difficile fare questo, il compito del genitore è quindi quello di reggere e sostenere le azioni del figlio offrendo relazione. Esempio: se mio figlio mi porta la rabbia io la reggo, ma non l’alimento. Il genitore, però, deve chiedersi fino a che punto può reggere la provocazione. Un esempio che porto sempre a tale proposito è quello del neonato che piange. Il genitore si chiede: “Cosa posso fare?” E trova la risposta.
La tecnica è la stessa, perché l’adolescenza dà una seconda chance al genitore di accogliere una richiesta. Il genitore può scegliere se accogliere o meno questa richiesta. Bisogna, quindi, saper dire no se si avverte di non essere capaci e di chiedere aiuto. Qualsiasi cosa il genitore faccia è importante riconoscere il proprio portato umano. Il colpevolizzare e il cercare a tutti i costi soluzioni veloci non sono mai soluzioni valide, al contrario alimentano difficoltà e situazioni delicate. 
La cultura da cui proveniamo ha poco a che fare con l’era post moderna. La famiglia, da un punto di vista culturale, è un media sociale e fin da subito offre al bambino la possibilità di avere spazi altri. Se il genitore vede costantemente il figlio può non rendersi conto dei cambiamenti. Per questo è importante il rapporto con altri. Uno di questi spazi può essere la scuola, ma non è l’unica. Sono tante le agenzie attraverso le quali creare altri spazi. Noi, ad esempio, siamo cresciuti con l’oratorio, gli amici sotto casa. Ad ogni modo è importante la presenza di qualcuno che possa guardare dall’esterno, offrire uno spazio altro e che possa in qualche modo sollevare in parte il genitore.

Come di consueto ci piacerebbe terminare l’intervista con un consiglio rivolto a chi si trova a essere vittima di episodi di bullismo e cyberbullismo, ma anche a chi ha scelto di vestire i panni del bullo/a e a chi quotidianamente si trova a contrastare episodi di questo tipo, come educatori, docenti, formatori, genitori. Da dove partire per uscire da situazioni di questo tipo e per mettere in atto azioni di prevenzione efficaci?

Cercare di abbracciare la cultura dell’essere meno performanti ed essere più umani. Accettare la propria umanità per poter accettare quella degli altri. Il genitore ha un ruolo importante nei confronti del figlio, ma al tempo stesso è il figlio che rende il genitore tale. Non bisogna spaventarsi di fronte le richieste del figlio, ma neanche sottostimarle. Bisogna lasciarsi la possibilità di affidare parte dell’educazione dei propri figli ad altre agenzie e riconoscere, così, i propri limiti. Se non ho tempo, se non ho risorse affettive adeguate, è bene delegare. L’adolescenza è un momento importante, ma come genitori bisogna rispettare i propri limiti che sono limiti umani. Non è sempre necessario dire ai propri figli cosa è giusto e cosa è sbagliato, ovvero dire ai figli cosa devono fare e come devono farloIn termini di prevenzione questo è l’atteggiamento più positivo che un genitore può attuare. Non è necessario essere perfetti, ma è bene essere consapevoli dei propri limiti poiché non si è perfetti, non siamo chiamati ad essere dei super eroi. Ai ragazzi e alle ragazze è bene raccontare che intorno c’è un mondo ricco di occasioni e che in qualche modo meritano di poterle scoprire e conoscere. C’è qualcosa oltre i propri limiti ed è bene esplorare.

 

Vuoi restare in contatto con Giorgio? Ecco dove trovarlo:

Pagina Facebook: Dott. Giorgio Conti
Pagina progetto: Write Club Lab

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La Comunicazione Gentile in sala parto:
Katia Papile, ostetrica, racconta l’importanza dell’empatia durante la nascita

La comunicazione gentile in sala parto | Bambino appena nato

Abbiamo bisogno di gentilezza anche per lasciare la pancia e affacciarci al mondo. Un bisogno fondamentale tanto per le madri, quanto per i bambini e le bambine. Chi ha vissuto l’esperienza di diventare mamma probabilmente lo sapeva già, ma se dovesse esserci ancora chi manifesta dubbio sull’importanza di comunicare con gentilezza o di allenare l’empatia abbiamo un’ulteriore conferma.

Dopo aver conosciuto Katia Papile, Ostetrica presso l’Ospedale di Pescara, abbiamo deciso di affrontare il tema della comunicazione gentile in sala parto, un argomento del quale oggi si parla tanto, ma soprattutto un ingrediente fondamentale per favorire la relazione di fiducia tra l’ostetrica e la mamma.

Una relazione, a ben guardare, particolare: al contrario di tante altre ha i minuti contati, ma è necessaria al fine di rendere l’esperienza della nascita positiva per la mamma e il suo/a bambino/a.

Katia Papille in sala parto
Katia Papile in sala parto

Partiamo dalle presentazioni: chi è Katia Papile?
Sono un’ostetrica ed ho 33 anni! Oltre a questo sono un’eterna sognatrice! Sempre con la testa in movimento pensando alle mille cose interessanti che ci circondano e che mi piacerebbe conoscere!

Ci siamo incontrate in occasione della prima Human Library a Pescara. Di te ci ha colpite la dolcezza e il modo con il quale ti sei avvicinata alla nostra scuola. Poi abbiamo scoperto che dolcezza e empatia sono ingredienti segreti del tuo lavoro. Ma che cos’è secondo te l’empatia?Per come la vedo io è uno strumento che permette di approcciare l’altra persona in maniera “naturale”, creando un clima disteso capace di farla sentire inclusa, compresa e non giudicata.

Sentiamo spesso dire che l’empatia è importante, essere empatici è un valore aggiunto, una chiave che apre innumerevoli porte. È davvero così e perché?
Credo proprio di si! Riuscire a mettersi in sintonia con l’altra persona permette di instaurare una “relazione di fiducia”, un ambiente quasi confidenziale che “riduce le distanze” tra due individui e che permette di condividere determinate situazioni.

Aiuti le donne in uno dei momenti più delicati e al tempo stesso naturali della vita umana: il parto. Cosa rappresenta questo per te?
Il lavoro che svolgo, mi piace definirlo “un onore”! È una grandissima responsabilità ma anche un enorme privilegio poter assistere al verificarsi della più meravigliosa tra le manifestazioni della natura! Ogni giorno insieme alla divisa si indossa una bella carica di adrenalina! Non è facile trovare ambienti lavorativi in grado di regalare le emozioni che si provano in una sala parto! E la cosa più incredibile è che puoi aver provato quella sensazione 100 volte, eppure ad ogni nascita la stretta al cuore è sempre la stessa!

Abbiamo definito la comunicazione gentile “un modello comunicativo basato sulla consapevolezza dell’esistenza dell’altro/a e di tutto ciò che lo caratterizza” (dubbi, paure, incertezze, bisogni, opinioni, ecc.). Quanto è importante, secondo la tua esperienza, adottare un modello comunicativo di questo tipo?
Credo sia semplicemente fondamentale! Dovrebbe essere spontaneo eppure nel frenetismo della vita quotidiana capita di dimenticare che ognuno di noi custodisce un vissuto ed un mondo interiore, agli altri sconosciuto, ma che, in quanto tale, merita di essere rispettato. Questo purtroppo non è facile e non è immediato! Nella maggior parte delle situazioni le tempistiche dettate, i ritmi stressanti, il carico di impegni… ci portano ad avere un atteggiamento tendenzialmente superficiale e giudicante che, viziosamente ci allontana dall’altro vietandoci la possibilità di conoscerlo e vietandogli la possibilità di essere compreso.

Katia Papile in ospedale con colleghe e colleghi
Katia Papile in ospedale con colleghe e colleghi

Un linguista di nome John Austin alla metà degli anni ’50 tenne una conferenza all’Università di Harvard dal titolo: “Come fare cose con le parole”. Il suo intento era uno: dare prova che attraverso le parole influenziamo il corso delle cose, le azioni che le persone scelgono di compiere o non compiere e così via. Immaginiamo che ogni giorno, nell’assistere donne che danno alla luce i/le propri/e bambini/e le parole siano uno strumento fondamentale per incoraggiare, aiutare, sostenere. Come scegli quelle giuste?
Non so se scelgo quelle giuste!!! Quello che mi propongo di fare è cercare di pormi in un’ottica positiva, con l’obiettivo di far scoprire loro il lato migliore della situazione! Accanto alle parole, è scontato dirlo, un ruolo fondamentale è rivestito dalla cornice con la quale queste vengono esposte! Il tono della voce, lo sguardo, l’atteggiamento… la comunicazione non verbale gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di una qualsiasi relazione. Mi diverte sempre assistere a come la predisposizione dell’altro muti fulmineamente al mutare del nostro atteggiamento! Anche semplicemente un sorriso, uno sguardo confortante, cambiano improvvisamente l’espressione del volto di chi guardiamo! Se a questi poi accompagniamo dei termini a loro famigliari e confortanti sarà più facile stabilire quella “relazione di fiducia” di cui parlavamo e che, in ambito ospedaliero è basilare.

Allenare l’empatia: che consigli daresti per potenziare questa competenza?
Credo semplicemente provare a porsi in maniera “umile” e priva di pregiudizi nei confronti dell’altro.  Immedesimarsi nella sua situazione senza lasciarsi travolgere da questa!

 

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Raccontare la disabilità con la fotografia:
la storia di Mara

Mara fotografata da Guglielmo Antuono primo classificato al concorso Inail InSuperAbile 2021

Il periodo del lockdown e l’improvviso distanziamento sociale hanno rappresentato per molti un momento di riflessione sulle priorità della propria vita. Così è stato per Guglielmo Antuono, il protagonista della Storia di Gentilezza che vi raccontiamo.
Guglielmo Antuono è un fotografo professionista, che nel 2021 ha trovato un nuovo punto di vista per esprimere il suo talento: raccontare la disabilità con la fotografia, una delle tante modalità per dare spazio al suo grande desiderio di cogliere l’anima delle persone in una sequenza di scatti. Ci è riuscito con il reportage “Mara”, il suo primo progetto con il suo nuovo obiettivo, che descrive la quotidianità di una bambina con deficit cerebrali permanenti a seguito di un parto d’urgenza.
Tra enormi difficoltà e anche tante sofferenze, il suo sguardo e il suo sorriso sono un’immensa speranza per il futuro. 

Buona lettura.

 

Partiamo dalle presentazioni: chi è Guglielmo Antuono?
Per iniziare desidero salutare e ringraziare il team di “Comunicazione Gentile”, progetto che apprezzo e che trovo utile ed attuale.
Questa è una domanda alla quale ho dovuto rispondere proprio ultimamente per il mio sito, nel quale ho tracciato un piccolo profilo che qui posso riassumere così: mi chiamo Guglielmo Antuono, in arte IGuAn. Fotografo, filmo, esploro e racconto storie cercandone sempre l’anima.

Poco prima della fine del 2021 hai vinto un premio importante: primo classificato al Concorso INAIL “Scatto InSuperAbile”, categoria Fotoreportage, con il progetto “Mara”. Un premio che arriva al culmine di altri riconoscimenti in concorsi fotografici nazionali ed internazionali. Ci vuoi raccontare qualcosa in più?
Nel 2020 abbiamo vissuto tutti un periodo di pausa e io ne ho approfittato per rivedere e riflettere su alcune priorità. Così ho finalmente deciso di costruirmi uno spazio personale dove poter condividere sia le storie che desidero raccontare sia cineFotografia.it, il progetto di ricerca sul linguaggio fotografico e cinematografico. Quel posto oggi esiste e si chiama www.iguan.it.
Nel 2021 ho deciso anche di confrontarmi in alcuni contest nazionali e internazionali e sono arrivate finali, pubblicazioni, una mostra e, a dicembre 2021,
il primo premio al concorso fotografico dell’INAIL con la storia di “Mara”.

Una foto del progetto Mara primo classificato al concorso Inail InSuperAbile 2021
Mara

Il progetto “Mara” è ciò che ci ha portate a contattarti. Prima ancora di saperti vincitore del premio avevi già toccato le corde dei nostri cuori. Hai contribuito ad accendere i riflettori su un tema tanto importante, come la disabilità, ma soprattutto hai dovuto scegliere quale rappresentazione darne. Oggi più che mai la società si interroga su quale sia il modo giusto per rappresentare la disabilità, sollevando riflessioni tanto sulle immagini quanto sulle parole. Tu da dove sei partito? Come ti sei preparato per affrontare questo argomento?
Grazie, mi fa piacere sapere di esser riuscito ad emozionarvi con questo reportage.  Non ho vissuto altre storie simili e il primo approccio, soprattutto con quell’universo immenso dei suoi meravigliosi occhi, è stato per me destabilizzante e coinvolgente. Da lì il desiderio di spingermi nella storia e scrutarla in profondità. Mi sono aperto quanto più potevo e mi sono lasciato attraversare dalla sua realtà.
Una particolare sintonia con il modo di affrontare questa storia l’ho avvertita con i compagni di Mara, che l’hanno accolta sempre con ascolto, comprensione, sostegno e rispetto
. Tali presupposti rafforzano la mia convinzione che un giorno questi ragazzi e ragazze saranno esseri umani migliori.

Quanto tempo hai impiegato per portare a termine il reportage tra progettazione, fase di scatto, editing e stampa?
Il tutto direi, approssimativamente, un paio di mesi.

È stato difficile far accettare la tua presenza nella quotidianità di Mara e della sua famiglia? Come sei riuscito ad essere partecipe, ma non invadente?
No, assolutamente! Mi sono mosso in punta di piedi e solitamente sono il tipo di persona che riesce a stare facilmente bene con il prossimo. Cristina poi, la mamma di Mara, mi ha facilitato l’esperienza facendomi sentire da subito a casa. Lei è una persona fantastica, dotata di una forza incredibile e permettetemi di approfittare di questo spazio per ringraziare ancora lei, Mara e tutte le persone a loro vicine. 

Mara durante gli esercizi quotidiani fotografata da Guglielmo Antuono
Mara durante gli esercizi quotidiani

La storia di Mara può essere il punto di partenza per tante riflessioni. Una di queste è senza dubbio la presenza di barriere architettoniche nella nostra vita. Cosa è cambiato per te dopo l’incontro con Mara? Ci sono cose che riesci a vedere e che prima sembravano inesistenti?
La storia di Mara mi ha cambiato, ha dato nuovi spunti alla mia sensibilità e mi ha mostrato quale meraviglioso inno alla vita lei rappresenti. Mi ha fatto crescere sia da un punto di vista professionale che umano. Barriere architettoniche? Tanta è ancora la strada da fare perché, anche se alcune buone leggi ci sono, non sempre vengono rispettate. Questa storia dovrebbe renderci ancora più attenti nell’osservare e denunciare le cose che non funzionano.

In una tua bio in rete si legge della tua formazione in campo sociale. Probabilmente questa influenza il modo in cui racconti le storie attraverso la fotografia. Quali competenze deve avere un fotografo come te, quali difficoltà incontra e come le supera?
La formazione in campo sociale, oltre quella specifica del settore, è stata una scelta per comprendere meglio alcune dinamiche umane. Ne percepivo l’utilità per poi raccontare l’essere umano nella sua complessità. Penso a materie come la sociologia, la psicologia, l’antropologia che nel mio percorso, utili lo sono state di sicuro. Le difficoltà tipiche di chi decide di dedicarsi a progetti simili sono per tutti noi più o meno le stesse. Da quelle economiche a quelle organizzative. Infatti, o hai un budget dedicato che ti permette di affrontare le spese e stare relativamente tranquillo oppure devi districarti tra diversi lavori e nel tempo libero, dedicarti ai progetti senza fondi. Questo perché capita di non avere sempre dei “commissionati” e, quindi, dei budget in partenza. Capita che decidi di testa tua di provare a realizzare un progetto per poi tentare di venderlo soltanto dopo ma non è detto tu ci riesca. 

Mara a scuola fotografata da Guglielmo Antuono
Mara a scuola

Storie e racconti favoriscono la conoscenza e l’apprendimento. Quali sono, secondo te, le storie che dovremmo conoscere e che ci aiutano ad essere persone migliori?
Ne abbiamo parlato qui, ora, in questa intervista. Mi sento di consigliare di vivere esperienze simili non solo ai colleghi, ma a tutti coloro che vogliono diventare esseri umani migliori.


Per rimanere in contatto con Guglielmo Antuono, ecco i suoi canali di riferimento:
Sito web: www.iguan.it

Instagram: @iguan.film
Storia di Mara: https://www.iguan.it/2021/09/16/mara/

 

Ti è piaciuto il progetto di Guglielmo Antuono? Ti invitiamo a condividere l’intervista sui tuoi canali social e tra le persone che conosci.
Ci aiuterai a far conoscere il progetto Scuola di Comunicazione Gentile e a porre l’attenzione su tematiche importanti in merito all’inclusione sociale.
Lascia in un commento la tua opinione. Siamo curiosissimi/e di conoscere il tuo parere!

 

Progetti PON scuola: 5 esempi che favoriscono le competenze per lo sviluppo

Studenti e studentesse in aula

Sei tra le figure impegnate nella realizzazione del cosiddetto Piano per accedere ai fondi strutturali? Allora sei nel posto giusto! Nelle righe che seguono vogliamo darti qualche idea e mostrarti alcuni esempi di progetti da inserire nei PON scuola, ovvero nei Programmi Operativi Nazionali.

Come saprai la Commissione Europea, per favorire la parità economica e sociale di tutte le regioni dell’Unione Europea e per ridurre il divario tra quelle più avanzate e le altre, finanzia una serie di attività e azioni delle quali le scuole possono beneficiare.

I fondi investiti sono chiamati Fondi strutturali e di dividono in due grandi categorie:

  • FSE, o Fondo Sociale Europeo, si tratta di un fondo che favorisce le competenze per lo sviluppo
  • FESR, o Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, un fondo che interviene a favore degli ambienti di apprendimento

I progetti che troverai in questo articolo possono essere finanziati attraverso il primo fondo citato, ovvero il Fondo Sociale Europeo. Per accedere ai finanziamenti, però, le scuole devono elaborare un Piano, ovvero un insieme di Progetti, soggetto alla valutazione dell’Autorità di Gestione dei PON.

Ricevuta l’autorizzazione, ogni scuola può avviare le procedure per realizzare il cosiddetto Piano Integrato di Istituto.

PON Scuola: i progetti che contrastano la dispersione scolastica e rafforzano le competenze di base

I PON scuola hanno diversi obiettivi riassumibili in due macro categorie:

  • Riduzione della dispersione scolastica e formativa, attraverso occasioni di incontro con l’arte, la scrittura, l’educazione alla cittadinanza attiva e alla cura dei beni comuni, ecc. 
  • Competenze di base, si tratta di potenziare abilità chiave, come la padronanza della lingua italiana, la capacità di scrittura creativa e comunicazione, il sapersi muovere con consapevolezza e spirito critico negli ambienti digitali.

Cosa portare in classe per favorire tutto ciò? Ecco 5 esempi che invitano studenti e studentesse a mettersi in gioco sui temi appena citati

Il Dizionario della gentilezza e Il Dizionario dell’inclusività

Si tratta di due percorsi, il primo dedicato alla realizzazione di un glossario per migliorare la comunicazione a scuola, il secondo rivolto ad acquisire gli strumenti necessari per una comunicazione non discriminante. Ogni giorno, infatti, siamo pervasi da un numero altissimo di messaggi, ma quanti di questi possono essere definiti gentili e inclusivi? Questi percorsi formativi sono un viaggio tra le parole e le immagini per comprenderne l’importanza.
Vuoi approfondire? Leggi i programmi cliccando qui e qui!

Progetti PON scuola esempi: il dizionario dell'inclusività e della gentilezza
Il Dizionario della Gentilezza e dell’Inclusività

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Il Manifesto della Comunicazione Gentile

Il percorso formativo si pone l’obiettivo di potenziare le competenze comunicative di studenti e studentesse attraverso il riconoscimento del ruolo fondamentale che ha l’empatia nella comprensione dell’altro e nel miglioramento delle relazioni. Possedere buone doti comunicative significa non solo conoscere le regole grammaticali, ma anche sapersi esprimere in modo chiaro, tenendo conto degli interlocutori che abbiamo di fronte e del contesto in cui avviene la comunicazione. Vuoi approfondire? Leggi il programma cliccando qui!

Progetti PON Scuola esempi: Il Manifesto della Comunicazione Gentile
Il Manifesto della Comunicazione Gentile adottato dalla nostra scuola

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Scrivere non è difficile

Il rapporto con la scrittura può essere difficile, soprattutto se affrontata con grande aspettative. Questo percorso propone di guardare lettere e parole con occhi diversi e di lasciare che la penna prenda il sopravvento. Pensieri e esperienze vissute saranno il punto da cui partire per scoprire cosa si nasconde dietro un romanzo, uno scrittore e un lettore, ma anche l’occasione per mettersi in gioco con tanti esercizi che stimolano la creatività. Vuoi approfondire? Leggi il programma cliccando qui!

Progetti PON scuola esempi: scrivere non è difficile
Scrivere non è difficile, il nostro corso per potenziare le abilità narrative

Guida alle Fake News

Riconoscere la veridicità delle informazioni che circolano in rete è difficile, ma non impossibile. Le fake news sono qualcosa di sempre esistito, ma negli ultimi anni, con la diffusione degli strumenti digitali, sono diventate uno strumento sempre più utilizzato per diffondere paure e creare conflitti. Per smascherarle occorre conoscere i meccanismi utilizzati per la loro creazione. In questo modo sarà facilissimo districarsi ed evitarne la diffusione. Vuoi approfondire? Leggi il programma cliccando qui!

Progetti PON scuola esempi: guida alle fake news
La nostra guida alle fake news realizzata da studenti e studentesse al termine di un laboratorio

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Studiare con internet e i social network

La rete e i social network possono riservare piacevoli sorprese, anche se il loro utilizzo preoccupa spesso docenti e genitori. Il corso si prefigge l’obiettivo di aiutare gli adolescenti a farne un uso consapevole e proficuo nel tempo, utilizzandoli per accrescere conoscenze e competenze. Vuoi approfondire? Leggi il programma cliccando qui!

Progetti PON scuola esempi: studiare con internet e i social network
Studiare con internet e i social network, il nostro corso per un approccio positivo ai social

Come avrai avuto modo di valutare, i PON scuola sono una vera e propria risorsa per svolgere numerose attività. Quelle che abbiamo visto finora sono, infatti, solo alcune delle proposte formative che la nostra scuola offre agli istituti scolastici. Spesso le attività possono essere progettate insieme al/alla Dirigente Scolastica (DS), al/alla Direttore/trice dei Servizi Generali e Amministrativi (DSGA), al/alla Facilitatore/trice e Referente per la Valutazione. Sono loro, infatti, a presentare il progetto e a seguirlo nelle fasi iniziali, elaborando i bandi di selezione delle figure professionali che successivamente si preoccuperanno di attuarlo.

Ti piacerebbe portare nella tua scuola uno dei progetti presentato in questo articolo? Hai un’idea ma non sai da dove partire?

Inviaci un’email, saremo felici di aiutarti!

Anna Barbaro e la forza di chi non smette mai di sognare

Anna Barbaro con la medaglia d'argento a Tokyo 2020

Per la rubrica Interviste gentili, abbiamo raccolto le stupende parole di Anna Barbaro, atleta paralimpica campionessa di triathlon. Ci ha raccontato la sua esperienza come atleta e il suo impegno per avere città più accessibili.

Anna Barbaro l’abbiamo conosciuta grazie ad Elena Travaini, della quale vi abbiamo parlato in una precedente intervista. È stata proprio lei, con il suo entusiasmo contagioso, a parlarci di una ragazza con una storia sorprendente e con uno spirito combattivo invidiabile.
Ora che le abbiamo conosciute entrambe possiamo dire che sono l’unione di una forza senza fine.

Anna si è presentata subito con il suo sorriso luminoso e con il suo modo di parlare sintetico, ma immensamente profondo. Una persona che ci ha colpito per la sua schiettezza e per la sua capacità di continuare a sognare, nonostante tutto. Anna 10 anni fa si è dovuta arrendere ad una malattia che le ha portato via la vista in pochi mesi. E dopo 10 anni con tenacia, dedizione e tanta fatica è riuscita a raggiungere l’obiettivo più ambito per ogni sportivo, ossia partecipare alle Paralimpiadi di Tokyo 2020. Come atleta di triathlon non si è “limitata” a partecipare, ma ha vinto l’argento tagliando il traguardo avvolta nel tricolore. Parlando con lei abbiamo scoperto come si realizzano i sogni e vogliamo raccontarvelo.

Anna Barbaro durante le paralimpiadi di Tokyo 2020
Anna Barbaro durante le paralimpiadi di Tokyo 2020

Partiamo dalle presentazioni: chi è Anna Barbaro?

Anna Barbaro è una persona come tante, una persona particolare nella sua unicità, che da ragazza viveva di sogni come tutti gli adolescenti. La patologia che ha colpito la sua vista ha modificato i suoi sogni e dal voler essere una musicista e un’ingegnera è diventata un’atleta, una triatleta, che ha partecipato alle paralimpiadi di Tokyo. Una persona che ha cambiato i suoi sogni per la voglia di vivere e di abbracciare la vita in qualsiasi modo gli sia stata posta davanti. Ogni persona ha la sua storia e come tali siamo uniche, io sono questa.

Nel 2011 la tua vita è stata completamente modificata da un virus che ti ha portato a perdere la vista.  Durante il nostro primo incontro ci hai parlato del sostegno che hai avuto da parte di persone con disabilità visiva. Cosa ricordi di quei momenti?

Spesso da soli non si riesce a trovare la forza per rinascere. A volte non bastano neanche gli altri finché non accetti quello che ti sta succedendo. Nei primi mesi della mia malattia mi sono isolata, ma nonostante questo ci sono state tante persone a me vicino che nel momento in cui io sono stata pronta mi hanno aiutata, rispettando i miei tempi. Ogni volta che si cade bisogna ritrovare se stessi, per poi poter stare con gli altri. L’ostacolo più grande è proprio quello di riconoscere che si ha bisogno di aiuto. Le persone che mi hanno aiutata hanno rispettato i miei tempi e questo è stato fondamentale. Mi hanno sostenuta e dato la forza, ma solo quando io ero pronta a ricevere tutto questo. I gesti degli altri in un primo momento non sono riuscita a comprenderli, ma a distanza di 10 anni ho capito quanto sono stata fortunata. Io sono stata una spettatrice di quello che mi stava accadendo: una dottoressa mi ha detto “Anna vivi la tua vita giorno per giorno”. In quel momento ho capito che tutto quello che stava accadendo mi riguardava e che dovevo chiedere aiuto. Studiando mi sono resa conto che in tutti i contesti, come quello sportivo, ci sono sempre i momenti no, le cose che non vanno e ogni volta bisogna sempre ritrovarsi per riniziare, per essere ancora più forti e per chiedere aiuto.

Anna Barbaro e il suo cane Nora
Anna Barbaro e il suo cane Nora

Dopo la malattia hai scelto di intraprendere una carriera sportiva con il Triathlon, sport impegnativo che richiede forza, agilità e resistenza.
Com’è nata questa decisione? E quanto è stato importante lo sport a livello motivazionale?

Una delle canzoni che amo di più è La somma delle piccole cose di Nicolò Fabi. Il risultato di questa gara è stata proprio la somma di piccole cose. Volevo guadagnarmi piccoli passi di vita quotidiana. Ho iniziato con l’entrare in piscina, per ritrovare una motivazione, ho continuato con le gare regionali di nuoto, ho continuato con il nuoto in vasca vincendo i titoli italiani, ho continuato con il nuoto in acque libere, tra cui la traversata dello Stretto… è la somma di piccoli passi che mi ha portato fino là. Io lo penso come un disegno scritto, come un percorso, che pian piano inizi a fare. A volte torni indietro, a volte vai avanti. Sono parole già sentite tante volte, ma la mia storia è proprio andata così. Io sono partita dal nulla: ho cominciato con una gara regionale, poi una nazionale, poi con un’altra nazionale, poi ho unito gli sport…e poi una persona della federazione nazionale di Triathlon mi ha detto “provaci”. Io ho provato e mi è piaciuto. Credo che sia stato lo sport a prendere me per la somma di piccoli passi. Poi ho fatto i campionati italiani, poi i campionati internazionali fino ad arrivare a Tokyo. È la somma di piccole cose che crea la tua vita e le cose che si fanno, non sempre liscia come un’autostrada, ma quando arrivi alla fine di quella strada e proprio lì che dici “che bello!!!”. Se ci pensi è un paradosso, perché dici “la strada è stata lunga 10 anni, tu quanto hai gioito? 30 secondi? 1 minuto?! Ma la bellezza della vita è proprio questa: fare un percorso lungo anni per godere di un momento di felicità davvero breve, ma intensissimo perché pieno di tutti quei piccoli passi che hai fatto.

Nel 2021 hai raggiunto un traguardo importantissimo: hai vinto l’argento alle Paralimpiadi di Tokyo 2020. L’immagine del tuo arrivo insieme alla tua guida Charlotte Bonin avvolte nella bandiera italiana ha emozionato il mondo, che ancora combatte con distanziamento, contagi e, ahimè, perdite umane. Qual è stato il momento in cui ti sei resa conto che stavi compiendo un’impresa? E quali sono state le emozioni di quei giorni? 

Io mi sono sempre sentita, fin dall’inizio, un esserino piccolo piccolo come una formica. Mi sono sempre paragonata ad una formica che gira intorno ad una grande pietra di cibo e dice: “Se io arrivo a quella pietra sarò felicissima, proverò una gioia immensa, ma non riesco a prenderla quella pietra perché è troppo pesante per me che sono piccolissima”. Tu immagina, io ho fatto tutti quei passi e ad un tratto arrivo lì, prendo questa pietra grande e alzo la mano. Ecco io mi sono sentita così! Ansia? No, nessuna ansia perché ero lì, ero tra le 10 persone al mondo ad essere lì. Quante persone al mondo volevano essere lì e non ci sono riuscite? Io piangevo perché ero già contenta di essere lì, ero già felice per questo. A volte non mi rendevo neanche conto, piangevo e basta!

Anna Barbaro in compagnia della sua guida mentre taglia il traguardo a Tokyo 2020
Anna Barbaro in compagnia della sua guida Charlotte Bonin mentre taglia il traguardo a Tokyo 2020

Il tuo impegno però non si chiude con lo sport. Sei una persona attiva, dinamica e, tra le tue attività, c’è anche un forte impegno nel sociale.
Puoi parlarci un po’ dei tuoi progetti in quest’ambito?

Oltre ad aver creato una piccola realtà a Reggio Calabria sono in prima linea per migliorare la situazione nella mia città. A chi mi chiede aiuto, in particolare persone non vedenti, rispondo positivamente e proprio a tale proposito ho conseguito l’abilitazione irifor per insegnare queste cose. Negli ultimi anni sono mancata molto per impegni sportivi, in passato lavoravo a scuola per aiutare bambini non vedenti e ora sto riprendendo anche i vecchi impegni e al tempo stesso sto lavorando a nuovi progetti. 

La Scuola di Comunicazione Gentile promuove l’inclusività e conosciamo, anche a livello di accessibilità digitale, le difficoltà che incontrano le persone con disabilità visiva nel leggere un contenuto on line o nell’accedere alle piattaforme. Quali accortezze consigli ai nostri lettori per rendere la rete un luogo inclusivo?

La prima cosa: quando si fanno i pdf e i word è bene farli in versione testo e non immagine perché i lettori leggono male i primi. Sui social il testo alternativo è fondamentale: nessuno lo vede, ma per le persone non vedenti sono testi fondamentali che ci aiutano a comprendere le pubblicazioni perché tramite i testi alternativi noi otteniamo una descrizione di quello che le persone vedono. Proprio da qui si potrebbe partire per abbattere molti muri che incontriamo utilizzando i social network.

Anna Barbaro in compagnia del suo cane
Anna Barbaro in compagnia del suo cane guida Nora

La gentilezza aiuta a migliorare le relazioni e permette di trovare sempre un punto d’incontro. In base alla tua esperienza, qual è il messaggio gentile che desideri lasciare per chi magari in questo momento sta vivendo un periodo di difficoltà? 

Non bisogna mai sentirsi soli perché soli non lo si è mai. Quando ci si sente soli bisogna guardarsi intorno perché qualcuno disposto ad aiutarci c’è sempre. E soprattutto bisogna donare gratuitamente perché quando meno ce lo aspettiamo qualcosa torna indietro. Proprio come è accaduto a me. 

Per conoscere e seguire Anna potete scriverle su annicabar@hotmail.com e seguirla sui social 

IG https://www.instagram.com/annicabar/
FB  https://m.facebook.com/annabarbaroatleta/

Gentilezza: significato, potere e storia di una parola longeva a cura del prof. Paolo Canettieri

Gentilezza significato potere storia | Intervista Paolo Canettieri

Per la rubrica Interviste Gentili, in vista del Natale, abbiamo deciso di raccontarvi una storia molto intrigante che parla di lingua e di cultura. Di cosa si tratta? Del significato originario, del potere e della storia della gentilezza.
E lo facciamo con il professor Paolo Canettieri, ordinario di Filologia Romanza presso l’Università Sapienza di Roma.
Abbiamo conosciuto il professor Canettieri grazie ad internet e in un’interessante chiacchierata in videochiamata, durante la quale ci ha raccontato del suo progetto: scrivere la storia della gentilezza.

L’idea ci ha subito affascinate, anche perché ricostruire l’evoluzione del termine gentile e della gentilezza è un’impresa non da poco, viste le implicazioni sociali e culturali che hanno. E così gli abbiamo proposto di realizzare un’intervista sul nostro blog per presentarsi e darci qualche piccola anticipazione sul lavoro che sta svolgendo, insieme a qualche consiglio su come affrontare oggi il tema della gentilezza.

Gentilezza categoria periodo romano | Paolo Canettieri
La gentilezza è una categoria che nasce nel mondo romano

Partiamo dalle presentazioni: chi è Paolo Canettieri? 

Sono un professore di una materia letteraria, la Filologia romanza, che si occupa di studiare le lingue che discendono dal latino e i testi che in queste lingue sono scritti.
In particolare, il filologo romanzo si occupa del periodo aurorale delle civiltà romanze, cioè il Medioevo. Di qui una riflessione profonda sui lasciti di quest’epoca alla Modernità e sulla funzione di cerniera che questo periodo ha avuto fra noi e la Classicità.

Parliamo adesso di un suo progetto. Sappiamo che sta lavorando ad un compito arduo: ricostruire la storia della gentilezza. Ci dica qualcosa di più: da dove nasce l’idea e perché ha deciso di intraprendere questo lavoro? 

L’idea nasce proprio dai fondamenti della mia disciplina: la riflessione sui lasciti del medioevo e la sua funzione di cerniera. La gentilezza è una categoria che nasce con il mondo romano, si sviluppa nel medioevo e, mutando in parte di significato e statuto ontologico, giunge fino a noi
L’aggettivo gentile viene dal latino gentilis, che non significava quello che significa oggi. Indicava l’appartenenza ad una gens e quest’ultimo concetto è legato al greco γένος “stirpe”, da cui, ad esempio, la genealogia, lo studio dei rapporti di discendenza, gruppo di uomini che hanno in comune un medesimo antenato e il nome. L’appartenenza alla gens determina il ceto in cui si rientra (si pensi alle più note, la gens Claudia, la gens Julia ecc.) e i gentiles erano quindi i nobili, gli aristocratici.
Il fatto è che nel Medioevo i gentili, intesi come gli aristocratici, crearono un insieme di norme distintive rispetto agli altri. La gentilezza, intesa come oggi la intendiamo, era appannaggio di re, duchi, conti, visconti e nasce prima nella Francia del Sud e poi viene esportata nelle altre regioni, Francia del Nord, Italia, Penisola Iberica, Germania ecc. Solo con il XIII secolo quest’etica si diffonde presso i ceti che imitavano nei modi gli aristocratici, in primo luogo i mercanti (ma non solo). Con gli sviluppi della Modernità, resta un collegamento fra il significante, gentile, e l’etica ad esso legata, che comportava soprattutto un trattamento elevato nei confronti delle dame e spesso la sottomissione dell’uomo nei loro confronti, ma anche una serie di regole nei modi di comportamento in società, a tavola, persino in guerra. L’insieme di queste regole costituisce ancora oggi uno dei cardini della civiltà e del processo di civilizzazione dell’uomo.

Come in parte ci ha raccontato, tutto parte dal termine “gentile”, una parola che subisce nel corso del tempo grandi evoluzioni. Quali sono le difficoltà incontrate per raccontare i vari passaggi di questo termine?

In sé, la ricostruzione dell’etimologia è ben nota, quindi questo non comporta difficoltà. La questione rilevante, tuttavia, è quella di studiare come l’evoluzione di questa parola si intrecci e vada di pari passo con l’evoluzione dei costumi e questo è un problema storico, innanzitutto.

Gentilezza significato appartenenza ceto aristocratico | Paolo Canettieri
Aristocrazia e uomini di classe

Un aspetto che invece l’ha sorpresa studiando la storia della gentilezza?
Mi ha impressionato soprattutto il fatto che la gentilezza abbia costituito un fattore imitativo importante delle classi elevate: si pensi che ancora oggi diciamo “un uomo di classe”. Anche il concetto di classe ha un’evoluzione parallela a quello di gentile. Oggi la gentilezza non comporta più questo, sembra un dato acquisito, ma non lo è, perché la villania è sempre in agguato nell’etica umana, la vediamo saltar fuori ogni volta che abbassiamo la guardia.

Ricorda nella sua esperienza accademica episodi di non gentilezza?

Molti, ma non ne parlerò, per gentilezza.

Qual è il consiglio gentile che desidera lasciare?

Credo che la gentilezza sia un processo inevitabile, ma non dobbiamo mai abbassare la guardia, anche nei momenti in cui saremmo meno portati a comportarci in modo gentile.

Un libro per avvicinarsi alla comunicazione gentile?

La civiltà delle buone maniere di Norbert Elias, ora da leggere, e Il declino della violenza di Steven Pinker.

 

Avevi mai riflettuto su questo aspetto “esclusivo” del termine gentile? Quest’intervista per noi è stata utile proprio per far luce sull’importanza di ricostruire la storia del pensiero per poter capire meglio il presente e le sue mille sfaccettature.
Se desideri porre altre domande o curiosità al professor Paolo Canettieri, puoi contattarlo all’ email paolo.canettieri@uniroma1.it.

Se questa intervista ti è piaciuta ti invitiamo a condividerla attraverso i tuoi canali social e tra le persone che conosci. Ci aiuterai a diffondere pratiche gentili e ad ostacolare l’hate speech. 

Vuoi dirci la tua? Lascia un commento, non vediamo l’ora di leggerlo!

Giornata Mondiale della Gentilezza: perché è così bello essere gentili?

Giornata Mondiale della Gentilezza

Il 13 Novembre in tutto il mondo è la Giornata Mondiale della Gentilezza. Un evento particolarmente caro a noi della Scuola di Comunicazione Gentile, che ci consente di riflettere su un tema, quello della gentilezza, sul quale c’è ancora molto da fare per farlo diventare protagonista virtuoso della quotidianità.
Di anno in anno è però incoraggiante notare che qualcosa si muove e che c’è maggiore consapevolezza nel ritenere la gentilezza la ricetta della felicità!
Nei due anni che ci stiamo lasciando alle spalle abbiamo avuto occasione di ragionare su molti aspetti delle nostre esistenze, perché la pandemia ci ha costretti all’isolamento, al distanziamento e alla paura del contagio. Qualcuno su questi timori ha creato una propria dialettica, provocando reazioni tutt’altro che gentili. Ed è stato un peccato.
C’è però un movimento globale che contrappone alla proliferazione dell’odio un incoraggiamento all’amore per l’altro e alla fiducia senza remore. Noi ci siamo accodati/e a questo cammino di gentilezza e lavoriamo quotidianamente per promuovere metodologie didattiche e prassi comunicative che mettano al centro l’accoglienza, l’inclusività e l’empatia.
Vogliamo quindi raccontarti cos’è la gentilezza e come può rendere le nostre vite più serene. E lasceremo dei consigli utili per portarla nelle tue giornate attraverso pratiche quotidiane. 

Perché la giornata mondiale della gentilezza si celebra il 13 Novembre?

La data del 13 Novembre come World Kindness Day è stata scelta perché è la data d’inizio della conferenza del World Kindness Movement, svoltasi a Tokyo nel 1997, che portò alla firma della Dichiarazione della Gentilezza. La Giornata Mondiale della Gentilezza fu tuttavia ufficializzata nel 2000, in occasione della 3° conferenza annuale del Movimento Mondiale della Gentilezza.
Ad oggi il Movimento conta 27 nazioni aderenti, che si riuniscono ogni anno per parlare di progetti condivisi e sviluppo sostenibile.
L’Italia ha aderito nel 2001, con il Movimento Italiano per la Gentilezza, che ha sede a Parma.
L’obiettivo dell’associazione è la promozione di uno stile di vita che metta al centro la comunità, per diffondere un’idea di progresso condivisa e una convivenza basata sull’armonia e sull’empatia.

Le iniziative per la Giornata Mondiale della Gentilezza 2021

Nel 2021 le iniziative per la Giornata Mondiale della Gentilezza sono iniziate l’8 novembre, con eventi online e offline, nelle scuole, nelle aziende e presso le istituzioni pubbliche.
Ne segnaliamo alcune molto interessanti e, se conosci altri eventi da indicare, saremo molto felici di inserirli.

Programma del Festival della Gentilezza 2021 | Giornata Mondiale della Gentilezza
Programma del Festival della Gentilezza 2021
  • Festival della Gentilezza – 09/14 Novembre 2021
    Giunto alla 3° Edizione, il Festival della Gentilezza promosso dall’Associazione Coltiviamo Gentilezza, prevede una settimana di eventi dal 09 al 14 novembre. Sei giorni per sei temi gentili, con visite guidate, laboratori, conferenze, talk e tanto altro.
    Hanno aderito oltre 200 realtà tra scuole, negozi, musei, librerie e professionisti ed ognuno ha proposto un’iniziativa a tema. I temi scelti sono: comunità, sanità, cultura, scuola, accoglienza/servizio, benessere.
    Il programma è consultabile qui
  • Settimana Internazionale della Gentilezza – 08/13 Novembre 2021
    In presenza e online, si svolgerà la 1° Settimana Internazionale della Gentilezza, con eventi in tutta Italia, volti a declinare il valore della gentilezza. Promosso da Italia Gentile, progetto dell’associazione no profit My Life Design Onlus, è un’iniziativa che coinvolge realtà imprenditoriali, scuole, carceri e ospedali, per dimostrare quanto essere gentili faccia bene alla mente e al cuore, basandosi su evidenze scientifiche.
    Il programma è consultabile qui 
  • Calendario dell’Avvento della Gentilezza
    La blogger Helen, che gestisce il blog Make Today Happy, nel 2015 ha lanciato il calendario dell’Avvento della Gentilezza, per arrivare al Natale compiendo 25 gesti gentili.
    Da quel momento è diventato virale e viene riproposto ogni anno.
    Cliccando qui potete trovare la traduzione di Green Me.
    Noi però vogliamo invitarti a realizzare il tuo calendario dell’Avvento della Gentilezza. Per stimolarti in questa impresa, lanciamo il 1° gesto: regalare una decorazione natalizia home made alla persona più gentile che conosci!

La Gentilezza fa bene: lo dice la scienza

Abbiamo parlato del valore dei gesti gentili. Su cosa si basa però la nostra convinzione sull’importanza di essere cortesi e di predisporsi all’empatia? Su due concetti fondamentali: la pratica quotidiana e le evidenze scientifiche.
Ogni giorno ci relazionano con le persone, sia a livello fisico sia virtuale e per farlo abbiamo bisogno delle parole. Che linguaggio utilizziamo nelle chat e via mail?

Facciamo un test. Vi mostriamo due messaggi:
1. “Buongiorno Genny, come stai? Riusciresti ad inviarmi il file per il progetto”;
2. “Puoi inviarmi il file del progetto?”
Quale dei due ti fa sentire meglio?!


La risposta è prevedibile ma, ti assicuriamo, non è così scontato ricevere un saluto, un buongiorno e un come stai. Perché tutto questo? Perché negli anni la dinamica del successo, del potere e della concorrenza, ci ha portato ad essere “pratici”, rinunciando a volte alle buone maniere e, cosa ancora più importante, saltando totalmente il passaggio di porci nella condizione dell’altro. Si punta esclusivamente al tornaconto personale.
Eppure inviare o ricevere messaggi gentili ha un impatto immediato sul nostro spirito e ci rende più predisposti al sorriso durante la giornata. Praticare gentilezza è dunque il primo gesto per migliorare la qualità della vita e contribuire alla gioia dell’altro: quando state per inviare un messaggio o quando incrociate lo sguardo di una persona, verificate che ci sia il saluto iniziale oppure salutate con un sorriso. Ti sentirai subito meglio!

Queste piccole azioni, che sembrano un aspetto legato all’istinto o alla condotta morale, hanno in realtà delle ricadute fisiologiche importanti anche sul nostro organismo. E le evidenze della scienza per noi sono state fondamentali per capire che c’era bisogno di agire in fretta per promuovere la gentilezza, perché, possiamo dirlo, fa bene alla salute.
Partiamo dalla genetica. Immaculata De Vivo, docente di medicina ad Harvard e massima esperta di epidemiologia molecolare e genetica del cancro, ha dimostrato che i buoni sentimenti agiscono sul nostro DNA, combattendo l’infiammazione e l’ossidazione, che sono causa di invecchiamento precoce. Essere gentili quindi ci fa vivere più a lungo.
Per entrare ancora più nel vivo dell’impatto sulla salute, parliamo delle malattie cardiovascolari. Uno studio del National Institute of Aging di Baltimora, che ha preso in esame 5.614 persone di età compresa tra i 14 e i 94 anni, ha evidenziato come le persone dal temperamento più aggressivo sviluppino più facilmente un ispessimento delle carotidi, con un aumento del 40% di rischio di infarto.

La gentilezza è stata inoltre studiata anche in altri ambiti, come il lavoro e la scuola, con risultati sorprendenti dal punto di vista del miglioramento dell’apprendimento e delle relazioni. Tutto questo ci ha spinto a creare la Scuola di Comunicazione Gentile, che non a caso abbiamo definito “scuola”. Sapete perché? Perché la gentilezza si può insegnare! Secondo Daniel Lumera, sociobiologo e autore del testo “La biologia della gentilezza”, bastano 3 gesti gentili al giorno, nei confronti di una persona, di un animale e di una pianta per stare bene con sé stessi. E, come se fosse un muscolo, può essere allenata sin da piccoli. Per questo educare i bambini e i ragazzi nelle scuole a praticare gentilezza è un investimento sul futuro, anche perché innesca un effetto dòmino. Quando riceviamo un gesto gentile siamo istintivamente portati a ricambiare, questo perché la comunità è regolata dalla reciprocità, della quale le neuroscienze ne evidenziano le basi. Entrano in gioco infatti i neuroni specchio, basilari per l’empatia, perché ci spronano a imitare i gesti che vediamo e a immedesimarci nella situazione dell’altro. Un esempio? Pensa a quante volte hai sbadigliato appena dopo aver visto qualcuno sbadigliare! Ma, come dichiara la neuropsicologa Daniela Mapelli, docente all’Università di Padova, “la contagiosità dipende anche dall’apprendimento: se mi hanno insegnato a essere ben educato, io metterò in atto quel comportamento con una frequenza elevata”.

Essere gentili è dunque un approccio che ha delle ricadute positive su ogni aspetto della vita e ci aiuta a superare momenti, come quelli caratterizzati dalla rabbia, che ci farebbero solo perdere tempo prezioso da dedicare alla nostra stabilità emotiva.

Aforisma di Buddha sull'importanza delle parole
Un aforisma di Buddha sull’importanza delle parole

Tre progetti gentili in occasione della Giornata Mondiale della Gentilezza 2021

Condividere gentilezza è il primo passo per diffonderla ed è per questo che crediamo fortemente nella promozione di progetti vicini al nostro e di iniziative basate su valori che condividiamo. Abbiamo quindi selezionato tre progetti che troviamo molto interessanti e portatori di principi basati sul rispetto reciproco, l’accoglienza e il benessere.

  • Coltiviamo Gentilezza
    https://www.coltiviamogentilezza.it/
    Il progetto sociale Coltiviamo Gentilezza è nato nel 2018 da un’idea di Viviana Hutter, scrittrice e creativa e Margherita Rizzuto, nomade digitale ed esperta di politiche e strategie sociali e culturali. Promuove la cultura delle emozioni e  dell’empatia e organizza il Festival della Gentilezza, coinvolgendo scuole, realtà culturali e attività locali. Realizza progetti in tutta Italia seguendo 4 termini chiave: semina, coltiva, diffondi, sostieni.
  • Costruiamo Gentilezza
    https://costruiamogentilezza.org  
    Progetto nazionale dell’Associazione “Cor et Amor”, è nato nel 2014 per diffondere gentilezza con azioni concrete sul territorio e coinvolgendo professionisti e pubbliche amministrazioni. Ha una rete molto ampia, che coinvolge comuni, assessori, medici, insegnanti, imprenditori e allenatori, definiti costruttori di gentilezza. I principi base dell’associazione sono proporre, partecipare, promuovere con la finalità di realizzare una società basata sul benessere diffuso.
  • Italia Gentile
    www.italiagentile.com
    Nato nel 2020 come progetto dell’associazione My Life Design Onlus, coinvolge persone, enti, imprese ed istituzioni per diffondere il valore della Gentilezza e creare progetti ad alto impatto sociale. Organizza “La settimana della gentilezza”, con eventi online e offline su tutto il territorio nazionale. Nel 2020 la Repubblica di San Marino, entrando a far parte del progetto, è diventata il 1° stato gentile del mondo.

I nostri consigli gentili

L’excursus sulla gentilezza in onore della giornata mondiale che la celebra si chiude con alcuni nostri consigli su come rendere le vostre giornate più gentili. Sono delle azioni che abbiamo imparato a compiere perché ci fanno sentire meglio e perché consentono di venirci incontro a vicenda, anche a distanza. 

  • Inizia ogni messaggio con saluto
    Se utilizzi mail e whatsapp per lavoro, inserisci sempre un saluto all’inizio della comunicazione. È un modo per cominciare con il piede giusto ed essere tutti a proprio agio.
  • Per le richieste prediligi il condizionale
    Nel parlato, ma soprattutto nello scritto, fare attenzione al tempo verbale evita di risultare troppo perentori, soprattutto quando si devono fare richieste o reminder.
    Esercitati ad utilizzare il condizionale: diventerà presto una piacevole abitudine.
  • Seleziona le informazioni
    Impara a selezionare le informazioni che leggi, soprattutto se ami condividerle con gli amici sui social. Verifica che la fonte sia citata e attendibile e che non utilizzi un linguaggio troppo sensazionalistico.
    Ricordi i neuroni specchio? Condividere informazioni utili e gentili aiuta a diffonderle maggiormente!

Se questo articolo ti è piaciuto, ti invitiamo a condividerlo sui tuoi canali social e tra le persone che conosci. Ci aiuterai a diffondere pratiche gentili e ad ostacolare l’hate speech. 

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Linguaggio inclusivo: definizione ed esempi per comprenderne l’importanza

Se ne parla già da tempo, ma nonostante questo essere esaustivi è davvero difficile quando si affronta un tema come quello del linguaggio inclusivo. Ciò è dovuto, in modo particolare, a tre fattori chiave:

  • ci troviamo davanti a quella che i linguisti chiamano “riflessione metalinguistica”, ovvero utilizzare la lingua per parlare della lingua stessa
  • l’italiano, per sua natura, non è una lingua neutra
  • la lingua è in costante evoluzione, pertanto siamo alle prese con qualcosa che cambia di giorno in giorno

Nonostante questo, è doveroso provare a dettare delle regole, a scrivere nero su bianco una definizione, a mettersi in gioco per cambiare ciò che “è sempre stato così”. Ad imporlo è la natura stessa del linguaggio inclusivo che, come vedremo, nasce proprio per cambiare vecchie e radicate abitudini, allargare la cerchia degli ascoltatori, includere.

Definizione di linguaggio inclusivo

“Le parole sono importanti” non è solo la citazione che attribuiamo a Nanni Moretti e al protagonista di uno dei suoi film – Palombella Rossa – ma è anche la premessa che giustifica un uso consapevole del linguaggio.

Proprio come insegna il film – il protagonista Michele Apicella richiama una giornalista per la scelta di alcune forme linguistiche – prima di scrivere o parlare è buona abitudine riflettere, pensare e valutare ciò che si sta per dire. Nello specifico, quello che bisognerebbe saper immaginare sono gli effetti che le nostre parole potrebbero avere su chi le ascolta, chi le legge, chi in qualche modo le riceve.

Il linguaggio inclusivo si pone questo grande obiettivo e offre la possibilità di costruire forme di comunicazione prive di stereotipi, pregiudizi e atti discriminatori nei confronti di determinate categorie di persone.

Il linguaggio, inteso come forma di comunicazione, rappresenta la facoltà che più di ogni altra distingue gli essere umani dalle altre specie. Gli atti di parola, però, possono sminuire, offendere, denigrare o escludere, anche quando non c’è intenzionalità. L’utilizzo di un linguaggio non discriminatorio è una forma di rispetto, esprime la volontà di includere, rappresenta il primo passo verso l’inizio di nuove relazioni.

In altre parole potremmo dire che il linguaggio inclusivo è una prassi da adottare al fine di realizzare forme di comunicazione – non solo scritte o orali – che sappiano rappresentare tutte le sfere del vivere sociale, evitando le distinzioni di sesso, origine, colore della pelle, disabilità, orientamento sessuale, preferenze politiche e così via.

Linguaggio inclusivo e categorie discriminate: chi sono le persone fragili?

Chi sono le persone discriminate? Cosa provano quando si sentono escluse a causa di un uso improprio delle parole? Non è facile immaginarlo. I contesti nei quali ciò può accadere sono svariati. Scuola, lavoro, famiglia, società, gruppo dei pari, la comunicazione attraversa e caratterizza ogni nostra azione.

Vi sono delle persone che possiamo definire più fragili di altre. Si tratta di quelle persone appartenenti alle categorie maggiormente escluse dai discorsi o esposte di frequente a forme di comunicazione discriminanti. Nello specifico parliamo di:

  • persone di sesso femminile
  • persone che non si identificano con il sesso biologico
  • persone con disabilità
  • persone appartenenti a determinate etnie
  • persone che professano la loro fede
  • persone che vivono in uno stato di povertà

Probabilmente le categorie citate non sono esaustive, ma ci offrono la possibilità di riflettere sul fatto che forme di comunicazione discriminanti pervadono la nostra vita più di quanto immaginiamo.

Come intervenire? Di chi è la responsabilità? Esistono modelli comunicativi basati sull’inclusività? Se sì, in che modo è possibile adottarli e farli propri? Nella comunicazione l’obiettivo di essere inclusivi è davvero raggiungibile?

Proviamo a rispondere attraverso una serie di esempi e casi pratici.

Parlare inclusivo: case history, esempi e casi pratici

La lingua italiana adotta una serie di convenzioni alle quali le persone, con il tempo, si sono così abituate a tal punto da ritenerle vere e proprie norme. Spesso, però, non è così e questo è il punto dal quale partire per costruire un linguaggio inclusivo.

Il maschile sovraesteso

Si tratta di una delle convenzioni più diffuse e non è inusuale arrivare a non farci caso. Per capire di cosa stiamo parlando facciamo qualche esempio:

Il primo maggio è la Festa dei LavoratoriIl primo maggio è la festa del lavoro
Gli studenti stanno svolgendo una prova praticaLa classe è impegnata in una prova pratica
Benvenuto sul nostro sito web!Siamo felici di averti qui

Queste sono solo tre frasi che sentiamo e leggiamo abitualmente. Sono costruite ricorrendo al maschile sovraesteso, ma basterebbe riflettere qualche minuto per capire che ci sono delle valide alternative e adottare, così, un linguaggio che includa anche le donne.

Esempio di linguaggio inclusivo: no al maschile sovraesteso
Rappresentare le donne nella lingua di tutti i giorni è possibile

La festa dei lavoratori, ad esempio, può diventare “La festa del lavoro”; per definire gli studenti possiamo utilizzare il collettivo “classe”; al posto di benvenuto potremmo utilizzare un più caloroso “Siamo felici di averti qui”.

Strategia e creatività permettono di costruire un discorso sicuramente più inclusivo. Chiediamo aiuto alle perifrasi e ai sinonimi, proviamo a cambiare il punto di vista nella frase, non dimentichiamoci dei nomi collettivi e astratti, cerchiamo di fare a meno di sostantivi, pronomi e aggettivi che non siano neutri.  Prestiamo attenzione al participio passato: quando ci troviamo davanti ad un tempo composto e l’ausiliare è il verbo essere è bene ricordare che il participio concorda sempre in genere e numero con il soggetto.

Anche qui, però, possiamo trovare delle valide alternative semplicemente cambiando il soggetto della frase.

E se dobbiamo fare riferimento ai gruppi di persone? Andiamo alla ricerca dei sostantivi generici che definiscono le categorie. Ad esempio, per i indicare “i dottori” possiamo utilizzare anche “personale medico”; “professori” e “docenti” hanno lo stesso significato di “corpo docente”; sostituiamo “scienziati” con “comunità scientifica”.

Ad ogni modo il grado di rappresentazione delle donne all’interno del linguaggio è solo uno degli aspetti sui quali occorre lavorare. 

Le parole della disabilità

Quando parliamo di linguaggio inclusivo, infatti, dobbiamo fare i conti con altrettante espressioni, parole e modi di dire che a prima vista appaiono innocue, ma in realtà non lo sono.

Disabile, handicappato/a, diversamente abilePersona con disabilità

Un esempio lo troviamo tra le parole che definiscono la disabilità, ovvero disabile, handicappato/a, diversamente abile. Cosa hanno di sbagliato? Sono totalizzanti e forniscono l’immagine di un gruppo omogeneo. 

Linguaggio inclusivo e disabilità
Parlare di disabilità è fondamentale, ma è necessario farlo utilizzando le parole giuste

Al contrario, l’espressione “persona con disabilità” lascia intendere che la persona possiede molteplici tratti e che la disabilità è solo uno di essi. Di conseguenza diremo persone cieche, persone non vedenti o persone con disabilità visiva invece di cechi; persona con autismo o persona autistica invece di autistico e così via.

Oltre il genere binario

A non sentirsi rappresentate nella lingua italiana sono anche le cosiddette persone non-binary, ovvero quelle persone che non si riconoscono nella costruzione binaria del genere.

La necessità è quella di esprimersi attraverso un genere neutro, caratteristica che la lingua italiana non possiede. Negli ultimi anni, proprio a ragion di ciò, sono state avanzate delle proposte che si pongono l’obiettivo di superare l’ostacolo e aiutare queste persone a fare cose scontate, come ad esempio descriversi o qualificarsi.

Il linguaggio inclusivo permette di superare la visione binary uomo donna
Le persone non binary spesso non si sentono rappresentate nei discorsi

Se da una parte alcune persone non binarie preferiscono mescolare maschile e femminile, dall’altra c’è chi utilizza la u come vocale finale – Ciao a tuttu -, chi ha scelto la via della ə – Ciao a tuttə -, chi ricorre all’asterisco – Ciao a tutt*.

Si tratta di una possibilità poiché, come sappiamo bene, la lingua italiana si basa sulla distinzione sessuale binaria e cambiare la sua struttura richiede un lungo lavoro. Al tempo stesso sappiamo che in questo modo stiamo lanciando un segnale alla comunità dei parlanti, ovvero la volontà di includere.

Linguaggio e pregiudizi

Impossibile negare che a volte ci troviamo davanti a parole, frasi o espressioni dalla dubbia interpretazione. A chi non è capitato, almeno una volta, di utilizzare un termine e subito dopo pensare: “Oh no, ma io non intendevo quello!”.

La nostra lingua raccoglie al suo interno una serie di termini che, sulla base di come sono utilizzati nel tempo, sono carichi di significati aggiunti o, addirittura, hanno smesso di essere funzionali in alcuni contesti.

Linguaggio inclusivo e pregiudizi: il caso delle parole rom e nomade
Scegliere le parole giuste aiuta a non alimentare stereotipi e pregiudizi

Si pensi, ad esempio, ai termini rom e nomade. Sul vocabolario Treccani alla voce nomade si legge:

nòmade agg. e s. m. e f. [dal lat. nomas -ădis, gr. νομάς -άδος, propr. «che pascola, che va errando per mutare pascoli», dal tema di νέμω «pascolare»]. – 1. Di gruppo etnico (e suoi appartenenti) che pratica il nomadismo: popolo, stirpe, tribù n., pastori n.; come sost. (spesso riferito, in partic., agli zingari): una tribù, una carovana, un accampamento di nomadi. Per estens., di ciò che è caratteristico delle popolazioni nomadi: fare vita nomade. 2. fig. Di persona o gruppo che non ha fissa dimora e muta frequentemente residenza, o che si sposta continuamente da un luogo a un altro (anche per motivi inerenti all’attività svolta): essere, sentirsi un n.; una compagnia di (artisti) nomadi.

Oggi sappiamo bene che il termine nomade ha perso il suo significato originale e viene spesso utilizzato per connotare negativamente le persone di etnia Rom che vivono nel nostro paese. Quante di loro sono davvero nomadi? Nella maggior parte dei casi, e soprattutto in relazione al fenomeno degli immigrati di seconda generazione, ci troviamo davanti a persone che non hanno mai vissuto il nomadismo nella loro vita. Pertanto il termine nomade, così come accade per zingaro, evoca un’idea di degrado e pericolo per la sicurezza della cittadinanza.

La stessa parola Rom, infine, viene utilizzata spesso con funzione dispregiativa, alludendo non alla nazionalità ma a persone violente e pericolose. Un uso scorretto di questi termini ha portato ad una correlazione inesistente, ovvero quella tra nazionalità Rom e persone pericolose, evocando sentimenti di razzismo nella collettività.

Essere consapevoli di come evolve la nostra lingua, di quali significati si nascondono dietro determinate parole, di come la collettività percepisce determinati discorsi è fondamentale per comunicare senza escludere.

Saper comunicare utilizzando un linguaggio inclusivo non è l’obiettivo da raggiungere, quanto piuttosto un processo che dura una vita. La lingua, infatti, è in costante mutamento e risente fortemente del contesto sociale e dell’utilizzo che di essa fanno i parlanti. Se da una parte non potremo affermare di aver raggiunto il nostro scopo, dall’altra possiamo prepararci ad accogliere i cambiamenti e a rivedere le nostre abitudini linguistiche ogni qualvolta ce ne sarà bisogno

La normalità di vivere a contatto con la disabilità: la storia di Raffaella e Giancarla

Per la rubrica Interviste Gentili siamo molto felici di condividere la storia di Giancarla e Raffaella, due sorelle che hanno costruito un rapporto intenso e ricco d’amore, venendosi incontro giorno per giorno.  Abitudini, sguardi, sorrisi e gesti segreti, come un linguaggio in codice, hanno reso la diversità un valore aggiunto nel loro stare insieme.
Raffaella è infatti affetta dalla nascita da Tetraparesi spastica e vive la sua vita in cameretta, circondata dall’affetto dei suoi cari e dagli oggetti ai quali è molto affezionata. La sua malattia non le ha impedito di dare amore alla sua famiglia e i suoi grandi occhi sanno comunicare al mondo che la forza della vita non è in quello che si definisce “normale” per convenzione, ma in quello che noi rendiamo consuetudine. 

Giancarla ci ha colpito proprio per questo: la sua capacità di rendere consueto ciò che al di fuori potrebbe sembrare difficile da sostenere.  Seo Copywriter e Jane Austen addicted, con la sua energia avvolge tutto quello che c’è intorno!

Buona lettura in compagnia di due grandi donne.

 

Partiamo dalle presentazioni: chi è Giancarla Zaino Marciano

Sono una Seo Copywriter. Per lavoro mi occupo di comunicazione aziendale con un focus sui contenuti: mescolando SEO, tecniche di scrittura e amore per le parole ho trovato un ambito del Digital Marketing che mi piace tantissimo e ho deciso di renderlo la mia professione come freelance da circa un anno e mezzo. 

Adesso passiamo a Raffaella: chi è e qual è il suo più grande insegnamento?

Raffaella è la mia sorellina di 25 anni, affetta da Tetraparesi spastica fin da quando è nata. La sua patologia le ha impedito di camminare, di parlare e di udire, ma di certo non di comunicare. Ha affrontato tanti problemi di salute e da circa 10 anni si nutre tramite alimentazione enterale e respira grazie all’ossigeno che le arriva ai polmoni tramite una cannula tracheostomica. Il suo più grande insegnamento è il sorriso anche nei giorni di dolore. Ha affrontato operazioni, malattie e crisi sempre con serenità, senza lamentarsi mai. Giorno dopo giorno, mi ha insegnato che ogni problema può essere affrontato con lo spirito giusto.

Foto di Raffaella
Raffaella

Cos’è per te la normalità?

La normalità è vivere la quotidianità che ho costruito negli anni. Ho girato tanti ospedali e conosciuto tante persone, ognuna con le proprie difficoltà e malattie, e ho capito che il concetto di normalità è molto relativo, quasi un punto di vista. Ciò che è normale per me non è detto che sia normale per te e viceversa. La normalità è accettare una routine e uno stile di vita, accettare le diversità dell’altr*, avere la capacità di vivere giorno per giorno, imparando dal passato e preparandosi al futuro. Perché la normalità è un concetto liquido: ciò che è normale oggi potrebbe non esserlo più domani. 

Il contatto quotidiano con la disabilità cos’ha rappresentato per te?

Rinunce e sacrifici da un lato, perché ho trascorso la mia infanzia, adolescenza e anche parte dell’età adulta basando la mia vita sulle esigenze della famiglia; dall’altro, mi ha reso capace di comprendere e accettare le diversità, proprio perché le ho vissute come normalità. E questo è un valore che mi caratterizza, sia come persona, che come professionista.

Ricordi episodi di discriminazione della disabilità che ti hanno particolarmente colpita?

Fortunatamente non ho vissuto episodi di discriminazione nei confronti di mia sorella, probabilmente perché avendo frequentato soprattutto gli ambienti ospedalieri, il clima è di comprensione e di condivisione. Mi sono rimaste impresse, però, domande curiose di altri bambini che nella loro purezza hanno cercato di capire perché Raffaella era diversa dagli altri e questo non ha nulla di negativo, anzi. Se insegnassimo ai bambini a capire, conoscere e accettare le diversità, avremmo delle future generazioni migliori.

Foto di Raffaella e Giancarla
Raffaella e Giancarla in un abbraccio

Qual è il consiglio che vuoi lasciare?

Parlare della disabilità e della diversità nelle scuole, nelle università e anche nei luoghi di lavoro per creare una cultura della diversità basata su una visione positiva. Potrebbe essere la spinta all’inclusività di cui oggi abbiamo sempre più bisogno. Un altro consiglio sento di darlo ai familiari di persone con disabilità: non vergognatevi mai, ma, piuttosto, siate fieri. Avete l’occasione di vivere un amore e un rapporto unico, quindi fatelo fino in fondo, perché vi lascerà una ricchezza che sarà solo vostra e che potrete condividere nelle vostre relazioni.

 

Per conoscere meglio Giancarla e seguire i suoi progetti potete contattarla qui:
Sito web: https://copyapuntino.it/
Email: giancarlazm@gmail.com
LinkedIn: https://www.linkedin.com/in/giancarla-zaino-marciano/
Instagram: https://www.instagram.com/copyapuntino/ 

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