Bullismo: perché accade, come riconoscerlo e come affrontarlo a casa e a scuola. Intervista a Giorgio Conti, Psicologo Psicoterapeuta.

Bullismo: perché accade e come riconoscerlo | Ne parliamo con il Dott. Giorgio Conti, Psicologo Psicoterapeuta

L’ultima campagna di monitoraggio per valutare su larga scala la presenza e l’andamento dei fenomeni di bullismo e cyberbullismo nelle scuole italiane mostra risultati sui quali occorre fermarsi a riflettere. Il Ministero dell’Istruzione ha reso noti i dati sulla piattaforma ELISA (formazione in E-Learning degli Insegnanti sulle Strategie Antibullismo), risultato dell’indagine svolta nell’anno scolastico 2021/2022 e alla quale hanno partecipato studenti e docenti.

Al monitoraggio hanno partecipato 314.500 studenti che frequentano 765 scuole statali secondarie di secondo grado e 46.250 docenti di 1.849 Istituti Scolastici statali. Il 22,3% degli studenti e studentesse delle scuole superiori è stato vittima di bullismo da parte dei pari, mentre Il 18,2% ha preso parte attivamente a episodi di bullismo verso un compagno o una compagna.

Alla luce di ciò che raccontano i dati abbiamo voluto approfondire l’argomento con Giorgio Conti, Psicologo Psicoterapeuta e profondo conoscitore del potere della parola. Suo è infatti il progetto Write Club Lab che dal 2012, attraverso le possibili applicazioni della scrittura e della lettura, promuove la narrazione come forma di espressione personale, per la salute, il benessere e la crescita personale.

Bullismo perché accade, come riconoscerlo e affrontarlo | intervista al Dott. Giorgio Conti Psicologo Psicoterapeuta
Il Dott. Giorgio Conti, Psicologo Psicoterapeuta

Partiamo dalle presentazioni: chi è Giorgio Conti?
Sembra una domanda semplice ma non lo è. Se dovessi parlare di me mi verrebbe spontaneo raccontare una storia. Faccio un piccolo inciso. Ho visto il vostro lavoro e quello che fare sul sito e le vostre interviste. Vedo che siete delle buone penne. Grazie per lo spazio e per l’intervista.
Nasco con una formazione tecnica da disegnatore meccanico, che mi permette di lavorare subito dopo il diploma. Questa è stata la mia prima vocazione, ma subito dopo mi sono reso conto che gli sbocchi lavorativi non erano quelli ai quali avrei ambito. Così ho deciso di investire ciò che avevo messo da parte per continuare la mia formazione e intorno ai 24 anni ho iniziato il percorso universitario. A quest’ultimo ho abbinato il percorso da agevolatore nelle relazioni individuali e nei gruppi. Inoltre, mi è capitato durante l’università di avere esperienze con la scrittura presso l’Università di Chieti, polo di eccellenza sulle neuroscienze. Ho avuto occasione di prendere parte ad una ricerca sulla scrittura, si trattava in particolare dell’adeguamento delle ricerche condotte da Pennebaker sul campione italiano. A fine ricerca ho chiesto informazioni e quella è stata la prima volta in cui ho ascoltato il nome di questo ricercatore, Pennebaker. Inoltre, ebbi l’occasione di svolgere un semestre di approfondimento presso la stessa cattedra che proponeva questa ricerca. In sei mesi ho avuto la possibilità di confrontarmi con tutte le ricerche di questo autore, dal primo articolo di Pennebaker del 1986 ritenuto significativo a tanti altri lavori successivi. Pennebaker utilizza la scrittura come psicologo sociale, in contesti sociali. Avevo già intuito il potere della parola, ma quell’incontro mi ha fatto incontrare la scrittura come contesto di applicazione della parola intimo e privato. Mi sono, così, appassionato a questo ambito, ho completato il percorso universitario e da agevolatore (counseling), e dopo l’università ho conseguito la specializzazione, orientamento psicoanalitico, perché mi sembrava il modello più interessante, più ghiotto, quello che fa vedere maggiormente le radici dello sviluppo della mente. Credo di aver tratteggiato chi sono. Sono colui il quale lavora a ridosso di questi ambiti:  scrittura e psicoterapia.

Noi che ti conosciamo un po’ di più rispetto alle persone che leggono sappiamo che ti occupi di benessere psicologico. Per questo vorremmo affrontare con te il tema del “Bullismo”. Da dove partire per inquadrare il fenomeno?
Sicuramente intuite bene quando identificate questo fenomeno come complesso articolato e centrato su un aspetto emotivo. Per parlare di un tema articolato e complesso come quello del bullismo bisogna creare una cornice che più è ampia e maggiormente descrive la situazione. Ci sono 3 aspetti da considerare: personale, sociale e ambientaleCi troviamo, infatti, davanti ad una persona che agisce in un contesto relazionale e in un ambiente più ampio, che lo circonda. La comparsa del fenomeno solitamente avviene tra i 12 e i 17 anni , anche se ci sono delle forme precoci che compaiono già a 11 anni. Perché in questa fase? Perché compare l’adolescenza, periodo che mette in gioco tutte le acquisizioni che l’individuo ha fatto negli anni precedenti.
Può risultare controintuitivo pensare che essere persone migliori origini dalla capacità che abbiamo appreso di superare momenti di difficoltà, di accettare e tollerare emozioni negative e far fronte a situazioni di angoscia. La mente non nasce dalle esperienze positive, la mente nasce dalla capacità di affrontare esperienze altamente impattanti con un valore emotivo negativo. Tutto questo è controintuitivo e può riassumere con una frase di Gibran: più il dolore ti scava dentro, più saprai contenere amore.
Un ambiente troppo confortevole e con pochi stimoli non ha mai fatto crescere nessuno. Sono le difficoltà a farci crescere.
In adolescenza succede proprio questo: si mettono in discussione tutte le acquisizioni possedute. Le capacità sviluppate si mettono in campo e si consolidano, mentre emergono le difficoltà che si sono verificate nel percorso evolutivo dell’individuo. Questo perché l’essere umano ha una tendenza innata alla conflittualità: l’individuo nascente si divide tra riposo e angoscia ed è il genitore che di volta in volta, relazionandosi con il bambino e offrendogli delle cure, permette al bambino di interiorizzare un modello che consente una forma di accettazione e contenimento delle emozioni più negative. Un po’ come se il genitore inculcasse nel bambino la fiducia che ciò che sta sentendo è qualcosa di transitorio e che può essere superato in modo positivo. Quando questo messaggio non arriva da parte del genitore, durante l’adolescenza tende ad emergere un’incapacità che possiamo definire incapacità di contenere. Se presente è bene che venga fuori durante il periodo adolescenziale poiché quest’ultimo rappresenta ancora un valido momento per l’apprendimento.
In merito alla dimensione sociale, invece, anche nei gruppi è importante un momento conflittuale. Uno psicologo che ha svolto importanti studi sui gruppi, Tuckman, afferma che un gruppo diventa un gruppo di lavoro quando affronta un momento conflittuale. Questa fase viene definita dallo stesso autore storming e in caso di mancanza il gruppo resta un gruppo formale. Tale dimensione la riscontriamo in tutti i contesti sociali: prendiamo, ad esempio, i nostri 18 anni. Rappresentano un momento di iniziazione verso l’età adulta e, come tutti i percorsi di iniziazione presentano un momento conflittuale.
Infine, l’ultimo aspetto da considerare quando parliamo di bullismo è l’ambiente. Quest’ultimo assume durante il periodo adolescenziale il ruolo che ha avuto il genitore della prima infanzia. Per questo da una parte è importante che sia presente, dall’altro che non abbiamo lo stesso ruolo del genitore se quest’ultimo non è stato sufficientemente attento. L’emergere di aspetti conflittuali durante la prima adolescenza è fisiologico, assume rilevanza a livello negativo nel momento in cui questo passaggio non trova risposta nella domanda che il giovane rivolge ai pari e al contesto sociale. 

A partire dal 2017, con la legge n°71, distinguiamo tra Bullismo e Cyberbullismo. I due fenomeni hanno caratterizzazioni proprie, ma anche aspetti in comune, come il mancato riconoscimento dell’altro/a. Cosa c’è alla base di tali manifestazioni?
Cogliete il cuore del fenomeno. Credo sia sempre difficile dare una risposta a tratti definitiva, perché la soggettività umana è qualcosa di così vario che è impossibile generalizzarla. Le ricerche che ha fatto Wells, psicologo svedese, parla abbastanza chiaro e mette al centro le capacità emotive. Il bullo e la vittima hanno un aspetto che li accomuna: una bassa intelligenza emotiva, ossia una bassa capacità di riconoscere le emozioni.
Le emozioni sono un metodo di comunicazione primordiale e al tempo stesso estremamente efficace, con una funzione sociale ben precisa. Nel momento in cui non si riesce a capire cosa c’è dentro le emozioni e cosa dicono di noi, può capitare di ritrovarsi in situazioni e contesti estremamente imprevedibili. Questo è l’aspetto centrale del problema.
Cosa accade quindi? Le emozioni hanno un ruolo importante: mettere in relazione le persone, creare legami. Il bullismo, più del cyberbullismo ha la capacità di creare relazioni estremamente forti. D’altra parte la ricerca di relazioni forti è uno degli aspetti che caratterizza la fase adolescenziale, momento in cui ragazzi e ragazze iniziano ad allontanarsi dal nucleo familiare per abbracciare una realtà più ampia e indefinita. 

Non è inusuale pensare che gli episodi di bullismo richiedano un intervento a favore della vittima. In realtà sappiamo bene che anche il bullo/a ha bisogno di aiuto. In caso di tali fenomeni, in quale direzione dovrebbe andare un intervento educativo efficace?
Un intervento dovrebbe andare nella direzione di fornire delle occasioni sociali che possano in qualche modo dare quel tipo di ascolto e di contenimento che precedentemente è stato carente. È importante che gli adolescenti possano esprimere quello che sentono.  Quando noi esseri umani manifestiamo un comportamento che può assumere tratti eccessivi o patologici, non funzionali, siamo sempre in presenza di un’espressione che è il risultato di una drammatizzazione all’esterno di un processo che sta avvenendo nell’interiorità dell’individuo. Questo per dire che la prima necessità è sempre quella “consapevolezza”. Il primo aspetto è sempre quello di poter esprimere ciò che si sente. Creare un ambiente in cui ci si può esprimere è fondamentale. Superata questa prima fase, è altrettanto importante fornire uno spazio espressivo in cui la corporeità assume un ruolo preponderante, la cui riuscita dipende anche dalle capacità di ognuno di noi, dalla formazione e dal saper accogliere l’altro. Uno spazio in cui bisogna parlare e anche agire, perché l’azione è l’aspetto principe dell’adolescenza. Uno spazio in cui poi si può parlare anche di relazioni sociali. L’aspetto delle emozioni e degli affetti in questo modo compare quasi da sé. Sicuramente non va considerato soltanto il bullo altrimenti non si va ad alleggerire il fenomeno. 

Nel contributo pubblicato da PISANO L., SATURNO M.E. (2008), Le prepotenze che non terminano mai, in «Psicologia Contemporanea», 210, 40-45, gli autori stilano alcune caratteristiche che differenziano bulli/e e cyberbulli/e e, al tempo stesso, mettono in evidenza come il bullismo sia un fenomeno legato al contesto scolastico e al gruppo dei pari. Quali sono le figure che in questa fase dell’età evolutiva possono contribuire a contrastare il fenomeno?

Le vostre domande sono estremamente interessanti. Spenderei prima due parole per differenziare cyberbullismo e bullismoI due fenomeni hanno come aspetto in comune la prevaricazione e la vittimizzazione verso una persona, quindi la messa in campo di comportamenti definibili aggressivi, un’insicurezza sia da parte del bullo sia della vittima, la sofferenza psicologica e fisica della vittima.
La differenza principale consiste nel fatto che il cyberbullo, rispetto al bullo,  mantiene anonimato e distanza. Per questo il cyberbullismo rappresenta un fenomeno meno evidente e meno appariscente. Il sintomo non è “visibile” ed è bene tenerne conto perché proprio il sintomo è un primo passo verso la guarigione.
Si parla molto della presa in carico di équipe in cui ci sono diverse figure e ognuna si focalizza su un aspetto o su un destinatario del fenomeno. Meritano attenzioni gli individui che ricoprono il ruolo di bullo, vittima, ma anche il gruppo dei pari, in una posizione intermedia tra la parte del fenomeno direttamente chiamata in causa e l’ambiente, attraverso forme di compartecipazione.
Infine, c’è una dimensione individuale e sociale del problema nella quale entrano anche gli adulti, ossia gli insegnanti, i genitori e tutte le persone che possono assistere al fenomeno. Il bullismo può essere considerato come una ricerca di attenzioni. Ognuno di noi diventa potenzialmente soggetto di intervento se assiste a determinati fenomeni. 

 

Bullismo: perché accade, come affrontarlo e come riconoscerlo a casa e a scuola
Per comprendere il fenomeno del bullismo è necessario delineare una cornice più ampia sulla quale riflettere

La famiglia rappresenta la prima agenzia di socializzazione, il luogo anche fisico nel quale fin da bambini si inizia a costruire relazioni con gli altri. In che misura è responsabile nel momento in cui un/a figlio/a veste i panni del bullo/a e in che modo può influire nelle azioni di prevenzione, tutela e contrasto del fenomeno?
Io mi rifaccio sempre alle ricerche di Dan Olweus che se da una parte sono datate, dall’altra sono quelle che hanno tracciato le direttive secondo cui identificare il fenomeno del bullismo. Dalle sue ricerche emergono diversi aspetti:

  1. il  contesto familiare che ricorre nei soggetti bulli è un ambiente familiare che da una certa età in poi è assolutamente permissivo, non pone limiti e non responsabilizza. Non è sufficientemente attento al proprio ruolo genitoriale, ossia saper dire NO mantenendo la relazione. 
    Il genitore, fin dai primissimi mesi di vita dei bambini, deve mediare, tollerare fino ad un certo punto e poi intervenire. Il ruolo del genitore è quello di essere presente pur dando libertà al bambino di dare forma alla sua identità. Nel momento in cui non sono presente io declino la responsabilità genitoriale. Il bullo urla un’esigenza di relazione. 
  2. una prima infanzia caratterizzata da genitori che utilizzano anche punizioni fisiche.
  3. forte presenza genitoriale nella prima infanzia che scompare non appena il bimbo diventa un piccolo adulto.
  4. scarsa presenza emotiva del genitore nella primissima infanzia. 

I paesi del nord hanno una particolare attenzione all’accudimento dei giovani. Un esempio? Avere spazi all’interno degli ambienti lavorativi dedicati ai figli. Ciò non significa che i paesi del Nord Europa sono migliori degli altri Stati membri, ma è innegabile che la presenza emotiva in alcuni casi è difficoltosa se non assente. 
Cosa può fare il genitore? Questa è una domanda complessa e difficile. Da un certo punto di vista il bullismo è un fenomeno che nasce all’interno dell’ambiente affettivo familiare e in questo senso è difficile pensare che il genitore possa fare qualcosa personalmente. Ci sono casi in cui, a prescindere dalle intenzioni, i fattori ambientali sono preponderanti anche quando siamo in presenza di genitori “perfetti”, ovvero genitori sufficientemente buoni, presenti e capaci di dare la giusta libertà, subentrano altri fattori come traslochi, spostamenti, allontanamenti di vario tipo all’interno del nucleo familiare che seguono lo sviluppo, la crescita e l’esperienza del giovane.
La prima cosa che può fare un buon genitore è quello di porsi domande. Non deve dare soluzioni, ma interrogarsi su ciò che sta accadendo e sulla sua posizione rispetto a ciò che sta accadendo. In adolescenza è ancora più difficile fare questo, il compito del genitore è quindi quello di reggere e sostenere le azioni del figlio offrendo relazione. Esempio: se mio figlio mi porta la rabbia io la reggo, ma non l’alimento. Il genitore, però, deve chiedersi fino a che punto può reggere la provocazione. Un esempio che porto sempre a tale proposito è quello del neonato che piange. Il genitore si chiede: “Cosa posso fare?” E trova la risposta.
La tecnica è la stessa, perché l’adolescenza dà una seconda chance al genitore di accogliere una richiesta. Il genitore può scegliere se accogliere o meno questa richiesta. Bisogna, quindi, saper dire no se si avverte di non essere capaci e di chiedere aiuto. Qualsiasi cosa il genitore faccia è importante riconoscere il proprio portato umano. Il colpevolizzare e il cercare a tutti i costi soluzioni veloci non sono mai soluzioni valide, al contrario alimentano difficoltà e situazioni delicate. 
La cultura da cui proveniamo ha poco a che fare con l’era post moderna. La famiglia, da un punto di vista culturale, è un media sociale e fin da subito offre al bambino la possibilità di avere spazi altri. Se il genitore vede costantemente il figlio può non rendersi conto dei cambiamenti. Per questo è importante il rapporto con altri. Uno di questi spazi può essere la scuola, ma non è l’unica. Sono tante le agenzie attraverso le quali creare altri spazi. Noi, ad esempio, siamo cresciuti con l’oratorio, gli amici sotto casa. Ad ogni modo è importante la presenza di qualcuno che possa guardare dall’esterno, offrire uno spazio altro e che possa in qualche modo sollevare in parte il genitore.

Come di consueto ci piacerebbe terminare l’intervista con un consiglio rivolto a chi si trova a essere vittima di episodi di bullismo e cyberbullismo, ma anche a chi ha scelto di vestire i panni del bullo/a e a chi quotidianamente si trova a contrastare episodi di questo tipo, come educatori, docenti, formatori, genitori. Da dove partire per uscire da situazioni di questo tipo e per mettere in atto azioni di prevenzione efficaci?

Cercare di abbracciare la cultura dell’essere meno performanti ed essere più umani. Accettare la propria umanità per poter accettare quella degli altri. Il genitore ha un ruolo importante nei confronti del figlio, ma al tempo stesso è il figlio che rende il genitore tale. Non bisogna spaventarsi di fronte le richieste del figlio, ma neanche sottostimarle. Bisogna lasciarsi la possibilità di affidare parte dell’educazione dei propri figli ad altre agenzie e riconoscere, così, i propri limiti. Se non ho tempo, se non ho risorse affettive adeguate, è bene delegare. L’adolescenza è un momento importante, ma come genitori bisogna rispettare i propri limiti che sono limiti umani. Non è sempre necessario dire ai propri figli cosa è giusto e cosa è sbagliato, ovvero dire ai figli cosa devono fare e come devono farloIn termini di prevenzione questo è l’atteggiamento più positivo che un genitore può attuare. Non è necessario essere perfetti, ma è bene essere consapevoli dei propri limiti poiché non si è perfetti, non siamo chiamati ad essere dei super eroi. Ai ragazzi e alle ragazze è bene raccontare che intorno c’è un mondo ricco di occasioni e che in qualche modo meritano di poterle scoprire e conoscere. C’è qualcosa oltre i propri limiti ed è bene esplorare.

 

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Pagina Facebook: Dott. Giorgio Conti
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La Comunicazione Gentile in sala parto:
Katia Papile, ostetrica, racconta l’importanza dell’empatia durante la nascita

La comunicazione gentile in sala parto | Bambino appena nato

Abbiamo bisogno di gentilezza anche per lasciare la pancia e affacciarci al mondo. Un bisogno fondamentale tanto per le madri, quanto per i bambini e le bambine. Chi ha vissuto l’esperienza di diventare mamma probabilmente lo sapeva già, ma se dovesse esserci ancora chi manifesta dubbio sull’importanza di comunicare con gentilezza o di allenare l’empatia abbiamo un’ulteriore conferma.

Dopo aver conosciuto Katia Papile, Ostetrica presso l’Ospedale di Pescara, abbiamo deciso di affrontare il tema della comunicazione gentile in sala parto, un argomento del quale oggi si parla tanto, ma soprattutto un ingrediente fondamentale per favorire la relazione di fiducia tra l’ostetrica e la mamma.

Una relazione, a ben guardare, particolare: al contrario di tante altre ha i minuti contati, ma è necessaria al fine di rendere l’esperienza della nascita positiva per la mamma e il suo/a bambino/a.

Katia Papille in sala parto
Katia Papile in sala parto

Partiamo dalle presentazioni: chi è Katia Papile?
Sono un’ostetrica ed ho 33 anni! Oltre a questo sono un’eterna sognatrice! Sempre con la testa in movimento pensando alle mille cose interessanti che ci circondano e che mi piacerebbe conoscere!

Ci siamo incontrate in occasione della prima Human Library a Pescara. Di te ci ha colpite la dolcezza e il modo con il quale ti sei avvicinata alla nostra scuola. Poi abbiamo scoperto che dolcezza e empatia sono ingredienti segreti del tuo lavoro. Ma che cos’è secondo te l’empatia?Per come la vedo io è uno strumento che permette di approcciare l’altra persona in maniera “naturale”, creando un clima disteso capace di farla sentire inclusa, compresa e non giudicata.

Sentiamo spesso dire che l’empatia è importante, essere empatici è un valore aggiunto, una chiave che apre innumerevoli porte. È davvero così e perché?
Credo proprio di si! Riuscire a mettersi in sintonia con l’altra persona permette di instaurare una “relazione di fiducia”, un ambiente quasi confidenziale che “riduce le distanze” tra due individui e che permette di condividere determinate situazioni.

Aiuti le donne in uno dei momenti più delicati e al tempo stesso naturali della vita umana: il parto. Cosa rappresenta questo per te?
Il lavoro che svolgo, mi piace definirlo “un onore”! È una grandissima responsabilità ma anche un enorme privilegio poter assistere al verificarsi della più meravigliosa tra le manifestazioni della natura! Ogni giorno insieme alla divisa si indossa una bella carica di adrenalina! Non è facile trovare ambienti lavorativi in grado di regalare le emozioni che si provano in una sala parto! E la cosa più incredibile è che puoi aver provato quella sensazione 100 volte, eppure ad ogni nascita la stretta al cuore è sempre la stessa!

Abbiamo definito la comunicazione gentile “un modello comunicativo basato sulla consapevolezza dell’esistenza dell’altro/a e di tutto ciò che lo caratterizza” (dubbi, paure, incertezze, bisogni, opinioni, ecc.). Quanto è importante, secondo la tua esperienza, adottare un modello comunicativo di questo tipo?
Credo sia semplicemente fondamentale! Dovrebbe essere spontaneo eppure nel frenetismo della vita quotidiana capita di dimenticare che ognuno di noi custodisce un vissuto ed un mondo interiore, agli altri sconosciuto, ma che, in quanto tale, merita di essere rispettato. Questo purtroppo non è facile e non è immediato! Nella maggior parte delle situazioni le tempistiche dettate, i ritmi stressanti, il carico di impegni… ci portano ad avere un atteggiamento tendenzialmente superficiale e giudicante che, viziosamente ci allontana dall’altro vietandoci la possibilità di conoscerlo e vietandogli la possibilità di essere compreso.

Katia Papile in ospedale con colleghe e colleghi
Katia Papile in ospedale con colleghe e colleghi

Un linguista di nome John Austin alla metà degli anni ’50 tenne una conferenza all’Università di Harvard dal titolo: “Come fare cose con le parole”. Il suo intento era uno: dare prova che attraverso le parole influenziamo il corso delle cose, le azioni che le persone scelgono di compiere o non compiere e così via. Immaginiamo che ogni giorno, nell’assistere donne che danno alla luce i/le propri/e bambini/e le parole siano uno strumento fondamentale per incoraggiare, aiutare, sostenere. Come scegli quelle giuste?
Non so se scelgo quelle giuste!!! Quello che mi propongo di fare è cercare di pormi in un’ottica positiva, con l’obiettivo di far scoprire loro il lato migliore della situazione! Accanto alle parole, è scontato dirlo, un ruolo fondamentale è rivestito dalla cornice con la quale queste vengono esposte! Il tono della voce, lo sguardo, l’atteggiamento… la comunicazione non verbale gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di una qualsiasi relazione. Mi diverte sempre assistere a come la predisposizione dell’altro muti fulmineamente al mutare del nostro atteggiamento! Anche semplicemente un sorriso, uno sguardo confortante, cambiano improvvisamente l’espressione del volto di chi guardiamo! Se a questi poi accompagniamo dei termini a loro famigliari e confortanti sarà più facile stabilire quella “relazione di fiducia” di cui parlavamo e che, in ambito ospedaliero è basilare.

Allenare l’empatia: che consigli daresti per potenziare questa competenza?
Credo semplicemente provare a porsi in maniera “umile” e priva di pregiudizi nei confronti dell’altro.  Immedesimarsi nella sua situazione senza lasciarsi travolgere da questa!

 

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Progetti PON scuola: 5 esempi che favoriscono le competenze per lo sviluppo

Studenti e studentesse in aula

Sei tra le figure impegnate nella realizzazione del cosiddetto Piano per accedere ai fondi strutturali? Allora sei nel posto giusto! Nelle righe che seguono vogliamo darti qualche idea e mostrarti alcuni esempi di progetti da inserire nei PON scuola, ovvero nei Programmi Operativi Nazionali.

Come saprai la Commissione Europea, per favorire la parità economica e sociale di tutte le regioni dell’Unione Europea e per ridurre il divario tra quelle più avanzate e le altre, finanzia una serie di attività e azioni delle quali le scuole possono beneficiare.

I fondi investiti sono chiamati Fondi strutturali e di dividono in due grandi categorie:

  • FSE, o Fondo Sociale Europeo, si tratta di un fondo che favorisce le competenze per lo sviluppo
  • FESR, o Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, un fondo che interviene a favore degli ambienti di apprendimento

I progetti che troverai in questo articolo possono essere finanziati attraverso il primo fondo citato, ovvero il Fondo Sociale Europeo. Per accedere ai finanziamenti, però, le scuole devono elaborare un Piano, ovvero un insieme di Progetti, soggetto alla valutazione dell’Autorità di Gestione dei PON.

Ricevuta l’autorizzazione, ogni scuola può avviare le procedure per realizzare il cosiddetto Piano Integrato di Istituto.

PON Scuola: i progetti che contrastano la dispersione scolastica e rafforzano le competenze di base

I PON scuola hanno diversi obiettivi riassumibili in due macro categorie:

  • Riduzione della dispersione scolastica e formativa, attraverso occasioni di incontro con l’arte, la scrittura, l’educazione alla cittadinanza attiva e alla cura dei beni comuni, ecc. 
  • Competenze di base, si tratta di potenziare abilità chiave, come la padronanza della lingua italiana, la capacità di scrittura creativa e comunicazione, il sapersi muovere con consapevolezza e spirito critico negli ambienti digitali.

Cosa portare in classe per favorire tutto ciò? Ecco 5 esempi che invitano studenti e studentesse a mettersi in gioco sui temi appena citati

Il Dizionario della gentilezza e Il Dizionario dell’inclusività

Si tratta di due percorsi, il primo dedicato alla realizzazione di un glossario per migliorare la comunicazione a scuola, il secondo rivolto ad acquisire gli strumenti necessari per una comunicazione non discriminante. Ogni giorno, infatti, siamo pervasi da un numero altissimo di messaggi, ma quanti di questi possono essere definiti gentili e inclusivi? Questi percorsi formativi sono un viaggio tra le parole e le immagini per comprenderne l’importanza.
Vuoi approfondire? Leggi i programmi cliccando qui e qui!

Progetti PON scuola esempi: il dizionario dell'inclusività e della gentilezza
Il Dizionario della Gentilezza e dell’Inclusività

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Il Manifesto della Comunicazione Gentile

Il percorso formativo si pone l’obiettivo di potenziare le competenze comunicative di studenti e studentesse attraverso il riconoscimento del ruolo fondamentale che ha l’empatia nella comprensione dell’altro e nel miglioramento delle relazioni. Possedere buone doti comunicative significa non solo conoscere le regole grammaticali, ma anche sapersi esprimere in modo chiaro, tenendo conto degli interlocutori che abbiamo di fronte e del contesto in cui avviene la comunicazione. Vuoi approfondire? Leggi il programma cliccando qui!

Progetti PON Scuola esempi: Il Manifesto della Comunicazione Gentile
Il Manifesto della Comunicazione Gentile adottato dalla nostra scuola

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Scrivere non è difficile

Il rapporto con la scrittura può essere difficile, soprattutto se affrontata con grande aspettative. Questo percorso propone di guardare lettere e parole con occhi diversi e di lasciare che la penna prenda il sopravvento. Pensieri e esperienze vissute saranno il punto da cui partire per scoprire cosa si nasconde dietro un romanzo, uno scrittore e un lettore, ma anche l’occasione per mettersi in gioco con tanti esercizi che stimolano la creatività. Vuoi approfondire? Leggi il programma cliccando qui!

Progetti PON scuola esempi: scrivere non è difficile
Scrivere non è difficile, il nostro corso per potenziare le abilità narrative

Guida alle Fake News

Riconoscere la veridicità delle informazioni che circolano in rete è difficile, ma non impossibile. Le fake news sono qualcosa di sempre esistito, ma negli ultimi anni, con la diffusione degli strumenti digitali, sono diventate uno strumento sempre più utilizzato per diffondere paure e creare conflitti. Per smascherarle occorre conoscere i meccanismi utilizzati per la loro creazione. In questo modo sarà facilissimo districarsi ed evitarne la diffusione. Vuoi approfondire? Leggi il programma cliccando qui!

Progetti PON scuola esempi: guida alle fake news
La nostra guida alle fake news realizzata da studenti e studentesse al termine di un laboratorio

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Studiare con internet e i social network

La rete e i social network possono riservare piacevoli sorprese, anche se il loro utilizzo preoccupa spesso docenti e genitori. Il corso si prefigge l’obiettivo di aiutare gli adolescenti a farne un uso consapevole e proficuo nel tempo, utilizzandoli per accrescere conoscenze e competenze. Vuoi approfondire? Leggi il programma cliccando qui!

Progetti PON scuola esempi: studiare con internet e i social network
Studiare con internet e i social network, il nostro corso per un approccio positivo ai social

Come avrai avuto modo di valutare, i PON scuola sono una vera e propria risorsa per svolgere numerose attività. Quelle che abbiamo visto finora sono, infatti, solo alcune delle proposte formative che la nostra scuola offre agli istituti scolastici. Spesso le attività possono essere progettate insieme al/alla Dirigente Scolastica (DS), al/alla Direttore/trice dei Servizi Generali e Amministrativi (DSGA), al/alla Facilitatore/trice e Referente per la Valutazione. Sono loro, infatti, a presentare il progetto e a seguirlo nelle fasi iniziali, elaborando i bandi di selezione delle figure professionali che successivamente si preoccuperanno di attuarlo.

Ti piacerebbe portare nella tua scuola uno dei progetti presentato in questo articolo? Hai un’idea ma non sai da dove partire?

Inviaci un’email, saremo felici di aiutarti!

Attivismo e gentilezza:
intervista a Benedetta La Penna

Attivismo e gentilezza | Intervista a Benedetta La Penna

Attivismo e gentilezza si incontrano nell’impegno civile e politico portato avanti da Benedetta La Penna, Operatrice socioculturale in Arci Pescara, Responsabile Comunicazione Conferenza Donne Democratiche della prov. di Pescara, Speaker e Autrice in Radio Città – Radio Popolare Network.

Abbiamo avuto il piacere di scambiare con lei quattro chiacchiere, colpite dal suo modo di essere un’attivista…gentile. La politica ci offre quotidianamente esempi negativi sull’utilizzo della parola e del linguaggio, la facoltà che più ci distingue da tutte le altre specie. Il suo, al contrario, è un esempio positivo di come si possa portare avanti degli ideali senza cadere nell’offesa e nelle manifestazioni di odio.

Non vogliamo anticiparvi nient’altro perché abbiamo chiesto a Benedetta di raccontarci davvero tante cose. 8 domande che sono una finestra sul mondo da aprire e non chiudere più!

Buona lettura!

 

Partiamo dalle presentazioni: chi è Benedetta La Penna

Benedetta La Penna credo che sia, prima ancora di un’attivista, una persona consapevole. O almeno, ci prova. Donna, bianca, di classe media, bisessuale. Dalla consapevolezza di ciò che sono, non solo ho capito quali siano le mie discriminazioni, ma soprattutto quali siano i miei privilegi. E da li ho capito in quali battaglie io posso essere portavoce e quali un alleata. 

Detto questo Benedetta è un’attivista che si occupa della diffusione dei diritti umani come unica forma di giustizia sociale e politica e per farlo utilizza la scrittura, perché a differenza di molte sue compagne può farlo senza avere ripercussioni gravi, la radio, perché ha una voce ed una preparazione, i social e le piazze.  Fare attivismo significa prima di tutto parlare con le persone e dare loro uno strumento in più per riflettere su quello che accade nel mondo. Poi, chiaramente, possono pensarla diversamente da te, ma almeno hai contribuito a dare loro maggior consapevolezza della realtà, facendo anche informazione.Nel dettaglio, ho delle collaborazioni con alcune testate online, come BL Magazine, dove curo la rubrica sul femminismo Intersezionale; Primo Foglio, una testata locale cartacea; Intersezionale, in cui tratto argomenti inerenti sempre ai diritti umani, soprattutto attraverso le dirette e le video interviste e Pressenza Italia

Ho un programma radiofonico chiamato Stand Up! Voci di Resistenza, su Radio Città Pescara, che è la sede pescarese di Radio Popolare, ed è un talk che tratta di politica e attualità con delle “lenti” femministe intersezionali. Sono la co-fondatrice del Collettivo “Zona Fucsia” a Pescara, gruppo transfemminista in cui proviamo a fare cultura e pressione politica pacifica alle istituzioni. Per vivere mi occupo invece di libri e di eventi culturali alla Libreria Primo Moroni di Pescara, la libreria indipendente della città, un vero e proprio centro di resistenza urbana.

Attivismo politico e gentilezza | Benedetta La Penna in Radio
Benedetta La Penna in radio durante il suo programma radiofonico Stand Up! Voci di Resistenza

Seguendoti sui social, in particolare Facebook, l’impressione che abbiamo avuto è stata quella di trovarci davanti ad una persona che vuole fare cultura sulla grande questione dei diritti umani. È così? Quando hai iniziato a sentire l’esigenza di parlare al mondo?

Giusto. Almeno, ci si prova! Fare cultura sui diritti umani è forse la cosa che mi esce più facile fare. Nel momento in cui ho scoperto la Dichiarazione Universale dei Diritti umaniad un corso Erasmus+ a Vienna sul “Civil Courage” la mia vita è davvero cambiata. Ne ho fatti parecchi di Training Course in giro per l’Europa (di cui uno sulla leadership politica a Tbilisi, sempre tramite Erasmus) che mi hanno formata, ma credo che questo in particolare mi abbia scaturito quel “click”.Insomma, ad oggi, se devo pensare ad un momento chiave nella mia vita, è proprio quel corso li, oltre ad un’esperienza di violenza domestica che però ho maturato anni dopo. Ricordo che il tutor, in un inglese con un forte accento tedesco, ci disse che avere un lavoro ben pagato e soddisfacente fosse un diritto di tutti. Io rimasi stupita, come è possibile? Davvero è un mio diritto la felicità? Amare chi voglio, avere cure? Si, ma a differenza degli altri diritti, non sono penali. Allora da li ho capito che solo con molta cultura e pressione politica si può forse fare la differenza.

Nello specifico mi occupo di diritti delle donne: sopra scrivevo che ho ben in mente quali siano i miei privilegi e le discriminazioni che subisco. Essere donna oggi è meglio di 100 anni fa, non ci sono dubbi, ma gli obiettivi e le modalità di discriminazione cambiano. Proprio perché sono dell’opinione che bisogna dare voce ai diretti interessati, mi occupo delle questioni di genere. Perché io in primis sono protagonista di queste discriminazioni. Senza però abbandonare le altre lotte, ma in quel caso utilizzo il mio privilegio per essere una buona alleata, senza togliere spazio a chi quella discriminazione la subisce davvero, ma anzi amplificandolo con i miei mezzi: la radio, i giornali, il web.A parte quel momento a Vienna, in cui ero inesperta ed ero a quel Training Course per caso, ho sentito la necessità di parlare e di fare del mio attivismo una missione quando, guardandomi intorno, mi sono resa conto che c’era bisogno di qualcun che prendesse l’iniziativa, fare da capofila. Mi son detta che forse se non lo facevo io non lo faceva nessun’altro, così mi sono buttata senza pensare alle conseguenze… ho pensato che le ingiustizie erano troppe, e che dovevo agire prendendomi il buono e cattivo tempo.

La collettività e l’opinione pubblica devono spesso fare i conti con immagini stereotipate senza esserne pienamente consapevoli. Tu sei un’attivista, parola a volte associata ad un’immagine negativa, ma noi ti abbiamo definita un’attivista gentile per il linguaggio che utilizzi e il modo con il quale entri nelle bacheche personali delle persone, raccontando quello che accade non solo in Italia. Ti eri mai soffermata su questo aspetto? Che biglietto da visita è oggi essere attiviste e quali temi ti stanno più a cuore?

Nella mia bolla la parola attivista è una parola abbastanza neutra, o forse addirittura con una connotazione positiva. Mi rendo conto che in giro ci siano moltissime persone che fanno attivismo ma in un modo diverso dal mio, ma credo che ognuno segue il modus operandi che più sente suo. All’inizio anche io ero molto arrabbiata ed avevo una comunicazione aggressiva, proprio perché quando ti rendi conto di tutto quello che nella società non va, non è facile rimanere calmi. Alzi la voce, ti senti incompresa… per poi capire però che in questo modo il messaggio non arrivava lontano. Ci vuole tempo, molta autocritica e autoscoscienza.

Il messaggio positivo è la cosa che bisogna custodire e tenere integro nella comunicazione politica, e dopo anni ho capito quali sono stati i miei errori. Chiaramente poi vedo le/i attiviste/i più famosi e ne studio il loro modo di attivarsi, e da li cerco di imitarli o meno. Ma alla fine ognun* di noi trova il modo migliore di parlare al mondo e di mandare a segno quel messaggio. Io lo faccio così, con i miei mezzi, il mio linguaggio, e vedo i miei risultati. Certo,  facendo attivismo “gentile” in un mondo in cui la popolarità dipende dalla tua performance e dalle accese discussioni nei talk è difficile avere visibilità. Ma quando pensi di fare un buon lavoro penso che i risultati siano più saldi e duraturi.Quindi per me essere attiviste oggi è un biglietto da visita come un altro, credo.

La parola attivista è neutra, spetta a te dare la connotazione, a seconda delle tue azioni. E io spero di dargli una connotazione positiva. E il feedback che ho da parte delle persone me lo conferma. Come dicevo prima il tema che mi sta più a cuore è la parità di genere, quindi il femminismo. Transfemminismo, per la precisione, in quanto per me anche una donna trans è una donna a tutti gli effetti (lo specifico perché nel femminismo questo punto ha diviso il movimento).

Ecco, secondo me più che attivista è la definizione “femminista” che fa paura e viene vista come un qualcosa di negativo, ma non mi vergogno di esserlo e di definirmi tale, non lo nascondo quando me lo chiedono. Femminismo non è il contrario di maschilismo, ma è la lotta contro il sessismo istituzionalizzato, ovvero il patriarcato, e vuole la parità dei diritti economici sociali e politici tra uomini, donne, persone non binarie. Spesso però si pensa che le femministe siano donne arrabbiate e violente, ma proprio perché, come dicevo prima, nella società della performance e della corrida intellettuale, si ha molta più visibilità in questo modo. Questo anche quando a ricorrere ai toni accesi è una sola femminista, rispetto alle altre 100mila femministe (e femministi) che invece fanno del movimento la loro vita con il dialogo e la passione. È un brutto gioco, ma conoscendo le regole di questo gioco ci si regola sulla partita.

Benedetta La Penna durante il FLA a Pescara
Benedetta La Penna durante il FLA a Pescara

La politica spesso ci mostra due facce dicotomiche della stessa medaglia: da una parte i grandi valori, dall’altra una grave incapacità di gestire le relazioni umane. Toni aspri, linguaggio forte, scivoloni, non solo durante le campagne elettorali, dove sembra che tutto sia concesso, ma anche nel dichiarare ideali e posizioni. Esiste un’alternativa a tutto questo?

Come dicevo prima, nell’età delle performance penso che molti politici seguano le regole di un gioco che nel corso del tempo si è trasformato, influenzando anche il modo di fare politica. Non dico che sia giusto, anche io reputo ad oggi che sia sbagliato il modo di fare di alcuni di loro. Forse è proprio per questo che penso che sia arrivato il momento di entrare in politica, come dovrebbero fare tutte le persone che come me hanno a cuore la giustizia sociale. Sono dell’opinione che ognuno di noi può essere parte attiva del cambiamento del mondo, in tutti gli ambiti. Se una cosa non ti piace, non basta criticarla, bisogna trovare l’alternativa, essere l’alternativa: ecco la differenza tra critica generativa e critica distruttiva. Le critiche sono parte essenziale della crescita, ma va affiancata la parte risolutiva. Anche quando una cosa non mi sta bene cerco sempre di essere propositiva e di usare un linguaggio positivo. Come diceva Obama, tirare le pietre (letteralmente e metaforicamente) non è fare attivismo.

Due punti del nostro Manifesto della Comunicazione Gentile recitano: “Esponi con rispetto la tua opinione, per sentirti parte della collettività” e “Spiega con competenza il dissenso, per condividere nuove idee e visioni”. Tu lo fai praticamente ogni giorno. Quanto è difficile essere gentili quando bisogna dissentire o controbattere?

Ah, difficilissimo! Ammetto che molto spesso mi arrabbio, soprattutto quando non riesco ad occuparmi di tutto, quando continuano a succedere le ingiustizie. Ma succede spesso quando discuto nelle assemblee e con le mie compagne di lotta, ma poi cerco sempre un modo per trasformare la mia rabbia in proposte e di porle in un linguaggio positivo. Se si continua a distruggere si tornerà sempre al punto di partenza. Se si costruisce, ci può essere un progresso. Se il messaggio e l’idea sono realmente validi (come lo è la parità di genere, un obiettivo auspicabile per donne e uomini) e li si espone nella maniera più chiara possibile, è possibile controbattere molto meglio di chi alza la voce. E questo l’ho capito con l’esperienza, perché essere aggressivi è estremamente facile quando ti toccano nel profondo. Ma poi, se pensi al modo in cui risolvere, capisci che devi fare diversamente. Appunto: esponendo con rispetto la propria opinione, spiegando con competenza il dissenso, proponendo nuove idee. Rimanendo però costantemente sul pezzo.

Sappiamo che il tema del linguaggio ti ha toccata da vicino più di una volta. Hai moderato incontri importanti con persone che stanno cambiando le regole del gioco in questo momento, come Vera Gheno e Porpora Marcasciano. Spesso, quando si accendono i riflettori sull’importanza del linguaggio c’è chi dice che ci sono cose più rilevanti alle quali pensare. Secondo te perché?

La questione del linguaggio è un ambito che mi appassiona particolarmente, soprattutto da quando ho studiato Linguistica all’univesità: mi si è aperto un mondo. È un argomento complesso ed è molto difficile da spiegarne l’importanza in poche righe. Penso che il linguaggio sia l’estensione di se stess*, e le parole possono davvero creare le cose intorno a noi. Ho letto di interviste di persone trans che si sono sentite accolte e si sono riconosciute quando la parola “trans” è iniziata ad essere usata e diffusa. Quella parola ha creato una comunità e le ha visibilizzate. Non è poco. La stessa cosa è successa con le persone no-binary, queer (che all’inizio aveva una connotazione negativa, ma che con la volontà degli attivisti è stata trasfomata in quello che significa oggi: un termine ombrello in cui tutt* ci sentiamo liber* di essere), e moltissime altre. 

Se io uso un linguaggio gentile e inclusivo, io do il via ad una serie di meccanismi positivi, che possono creare alleanze, dinamiche politiche e azioni concrete. Non a caso, le più grandi rivoluzioni sono iniziate da discorsi di grandi leader. “I have a dream” è uno slogan che ha cambiato la vita di moltissime persone all’epoca, perchè ha generato buone pratiche. E come quello ce ne sono tantissime altri. Tema inerente al linguaggio, ed è molto caldo in questo periodo, è proprio l’utilizzo dello schwa, ma ci vorrebbe un’intervista a parte. L’utilizzo di questo simbolino (ə) non è ovviamente la soluzione definitiva per avere un linguaggio più inclusivo (ovvero, includere nella nostra lingua anche le persone che non sono ne di sesso maschile ne di sesso femminile), ma è un modo semplice per dire “ehi tu, si tu… voglio parlare anche a te e mi interessa sapere cosa pensi”.  A me non costa nulla usarlo, e se nella platea conosco tutte le persone presenti e so che sono binarie non lo uso. Dipende dal contesto. In radio e nei blog si, perché voglio arrivare anche alle persone non binarie o fluide. E l’uno non esclude l’altro. Infatti, quando sento persone che dicono che ci sono problemi ben peggiori, io rispondo con una parola: benaltrismo.

Si può fare “attivismo linguistico” in contemporanea con moltissime altre lotte e anche qui, l’una non esclude l’altra. È il potere dell’intersezionalità, capire che tutte le oppressioni sono collegate tra di loro, e ci si può tranquillamente occupare di più cose contemporaneamente ed anzi, forse solo facendo una lotta alla discriminazione si può cambiare la situazione. Dedicarsi ad una battaglia per volta non credo sia la cosa più efficace da fare ad oggi.

Benedetta La Penna durante una manifestazione
Benedetta La Penna durante una manifestazione

Il tuo impegno è spesso a favore delle donne e sappiamo che i temi sui quali riflettere sono tanti. Dal gender gap alla violenza fisica, verbale, psicologica. Negli ultimi tempi si parla tanto di linguaggio inclusivo: sappiamo che non è la panacea di tutti i mali, ma un modo per iniziare a praticare atti di gentilezza. Secondo te sulla questione delle donne a che punto siamo? In quale direzione bisogna andare per cambiare davvero le cose?

Come dicevo prima, la situazione delle donne è migliorata rispetto a 100 anni fa: abbiamo la legge sull’aborto (molto lacunosa, ma anche qui ci vorrebbe un’intervista a parte), la legge sul divorzio, lo stupro come reato e non come semplice crimine contro la morale pubblica e così via. Ringrazierò per sempre le compagne femministe che sono venute prima di me. Ma è chiaro che, come cambiano le leggi, cambia anche la società e quindi si rinnovano gli obiettivi del movimento femminista.

100 anni fa non c’era il revenge porn, l’aggravamento del body shaming e del catcalling.Continuano ad esserci femminicidi, la 194 viene davvero messa in discussione, il gender salary gap… La situazione non è serena, e dobbiamo sempre rimanere allerta per far sì che questi nostri diritti non ci vengano confiscati, perché considerati troppo spesso una “gentile concessione”. Purtroppo non possiamo né fermarci né accontentarci, perché la discriminazione c’è e pesa sulla spalle di miliardi di donne.

Io penso che l’unico modo di agire è alzare la testa ogni volta che vediamo che qualche nostro diritto viene meno, divulgare il più possibile un modo di vivere la società in maniera paritaria e giusta, infrangendo quella convinzione che molte donne hanno ovvero “tanto non cambierà nulla”. Il punto di rottura è proprio li: se a milioni di donne non sta bene quello che vede, ci si può alleare e riequilibrare le cose, e diventare parte attiva del cambiamento. Credo che sia questo il femminismo, l’alleanza, la costanza, creatività ma anche molta disciplina. Rimanere sul pezzo e fare pressione politica affinchè le leggi cambino sempre più a favore dei più.

La gentilezza mette sempre d’accordo, per questo ti chiediamo un consiglio gentile o un insegnamento che ritieni indispensabile condividere. L’obiettivo è aiutare chi legge a migliorare la qualità della vita e la gestione delle relazioni!

Sii parte attiva del cambiamento. Molti ti diranno che non puoi cambiare ciò che non ti piace, e invece, se si sta insieme, è possibile. E quando vedi che sale la rabbia, e ti senti sopraffatt*… prendi fiato e ricomincia.

 

Quello che ci rivolge Benedetta è un vero e proprio invito ad essere persone interessate a ciò che accade intorno a noi. Lasciamo da parte l’indifferenza e facciamo spazio alla consapevolezza!

Se questa intervista ti è piaciuta ti invitiamo a condividerla attraverso i tuoi canali social e tra le persone che conosci. Ci aiuterai a far conoscere il progetto Scuola di Comunicazione Gentile e a portare l’attenzione su temi che ci toccano da vicino ogni giorno!

Vuoi dirci la tua? Lascia un commento, non vediamo l’ora di leggerlo!

Linguaggio inclusivo: definizione ed esempi per comprenderne l’importanza

Se ne parla già da tempo, ma nonostante questo essere esaustivi è davvero difficile quando si affronta un tema come quello del linguaggio inclusivo. Ciò è dovuto, in modo particolare, a tre fattori chiave:

  • ci troviamo davanti a quella che i linguisti chiamano “riflessione metalinguistica”, ovvero utilizzare la lingua per parlare della lingua stessa
  • l’italiano, per sua natura, non è una lingua neutra
  • la lingua è in costante evoluzione, pertanto siamo alle prese con qualcosa che cambia di giorno in giorno

Nonostante questo, è doveroso provare a dettare delle regole, a scrivere nero su bianco una definizione, a mettersi in gioco per cambiare ciò che “è sempre stato così”. Ad imporlo è la natura stessa del linguaggio inclusivo che, come vedremo, nasce proprio per cambiare vecchie e radicate abitudini, allargare la cerchia degli ascoltatori, includere.

Definizione di linguaggio inclusivo

“Le parole sono importanti” non è solo la citazione che attribuiamo a Nanni Moretti e al protagonista di uno dei suoi film – Palombella Rossa – ma è anche la premessa che giustifica un uso consapevole del linguaggio.

Proprio come insegna il film – il protagonista Michele Apicella richiama una giornalista per la scelta di alcune forme linguistiche – prima di scrivere o parlare è buona abitudine riflettere, pensare e valutare ciò che si sta per dire. Nello specifico, quello che bisognerebbe saper immaginare sono gli effetti che le nostre parole potrebbero avere su chi le ascolta, chi le legge, chi in qualche modo le riceve.

Il linguaggio inclusivo si pone questo grande obiettivo e offre la possibilità di costruire forme di comunicazione prive di stereotipi, pregiudizi e atti discriminatori nei confronti di determinate categorie di persone.

Il linguaggio, inteso come forma di comunicazione, rappresenta la facoltà che più di ogni altra distingue gli essere umani dalle altre specie. Gli atti di parola, però, possono sminuire, offendere, denigrare o escludere, anche quando non c’è intenzionalità. L’utilizzo di un linguaggio non discriminatorio è una forma di rispetto, esprime la volontà di includere, rappresenta il primo passo verso l’inizio di nuove relazioni.

In altre parole potremmo dire che il linguaggio inclusivo è una prassi da adottare al fine di realizzare forme di comunicazione – non solo scritte o orali – che sappiano rappresentare tutte le sfere del vivere sociale, evitando le distinzioni di sesso, origine, colore della pelle, disabilità, orientamento sessuale, preferenze politiche e così via.

Linguaggio inclusivo e categorie discriminate: chi sono le persone fragili?

Chi sono le persone discriminate? Cosa provano quando si sentono escluse a causa di un uso improprio delle parole? Non è facile immaginarlo. I contesti nei quali ciò può accadere sono svariati. Scuola, lavoro, famiglia, società, gruppo dei pari, la comunicazione attraversa e caratterizza ogni nostra azione.

Vi sono delle persone che possiamo definire più fragili di altre. Si tratta di quelle persone appartenenti alle categorie maggiormente escluse dai discorsi o esposte di frequente a forme di comunicazione discriminanti. Nello specifico parliamo di:

  • persone di sesso femminile
  • persone che non si identificano con il sesso biologico
  • persone con disabilità
  • persone appartenenti a determinate etnie
  • persone che professano la loro fede
  • persone che vivono in uno stato di povertà

Probabilmente le categorie citate non sono esaustive, ma ci offrono la possibilità di riflettere sul fatto che forme di comunicazione discriminanti pervadono la nostra vita più di quanto immaginiamo.

Come intervenire? Di chi è la responsabilità? Esistono modelli comunicativi basati sull’inclusività? Se sì, in che modo è possibile adottarli e farli propri? Nella comunicazione l’obiettivo di essere inclusivi è davvero raggiungibile?

Proviamo a rispondere attraverso una serie di esempi e casi pratici.

Parlare inclusivo: case history, esempi e casi pratici

La lingua italiana adotta una serie di convenzioni alle quali le persone, con il tempo, si sono così abituate a tal punto da ritenerle vere e proprie norme. Spesso, però, non è così e questo è il punto dal quale partire per costruire un linguaggio inclusivo.

Il maschile sovraesteso

Si tratta di una delle convenzioni più diffuse e non è inusuale arrivare a non farci caso. Per capire di cosa stiamo parlando facciamo qualche esempio:

Il primo maggio è la Festa dei LavoratoriIl primo maggio è la festa del lavoro
Gli studenti stanno svolgendo una prova praticaLa classe è impegnata in una prova pratica
Benvenuto sul nostro sito web!Siamo felici di averti qui

Queste sono solo tre frasi che sentiamo e leggiamo abitualmente. Sono costruite ricorrendo al maschile sovraesteso, ma basterebbe riflettere qualche minuto per capire che ci sono delle valide alternative e adottare, così, un linguaggio che includa anche le donne.

Esempio di linguaggio inclusivo: no al maschile sovraesteso
Rappresentare le donne nella lingua di tutti i giorni è possibile

La festa dei lavoratori, ad esempio, può diventare “La festa del lavoro”; per definire gli studenti possiamo utilizzare il collettivo “classe”; al posto di benvenuto potremmo utilizzare un più caloroso “Siamo felici di averti qui”.

Strategia e creatività permettono di costruire un discorso sicuramente più inclusivo. Chiediamo aiuto alle perifrasi e ai sinonimi, proviamo a cambiare il punto di vista nella frase, non dimentichiamoci dei nomi collettivi e astratti, cerchiamo di fare a meno di sostantivi, pronomi e aggettivi che non siano neutri.  Prestiamo attenzione al participio passato: quando ci troviamo davanti ad un tempo composto e l’ausiliare è il verbo essere è bene ricordare che il participio concorda sempre in genere e numero con il soggetto.

Anche qui, però, possiamo trovare delle valide alternative semplicemente cambiando il soggetto della frase.

E se dobbiamo fare riferimento ai gruppi di persone? Andiamo alla ricerca dei sostantivi generici che definiscono le categorie. Ad esempio, per i indicare “i dottori” possiamo utilizzare anche “personale medico”; “professori” e “docenti” hanno lo stesso significato di “corpo docente”; sostituiamo “scienziati” con “comunità scientifica”.

Ad ogni modo il grado di rappresentazione delle donne all’interno del linguaggio è solo uno degli aspetti sui quali occorre lavorare. 

Le parole della disabilità

Quando parliamo di linguaggio inclusivo, infatti, dobbiamo fare i conti con altrettante espressioni, parole e modi di dire che a prima vista appaiono innocue, ma in realtà non lo sono.

Disabile, handicappato/a, diversamente abilePersona con disabilità

Un esempio lo troviamo tra le parole che definiscono la disabilità, ovvero disabile, handicappato/a, diversamente abile. Cosa hanno di sbagliato? Sono totalizzanti e forniscono l’immagine di un gruppo omogeneo. 

Linguaggio inclusivo e disabilità
Parlare di disabilità è fondamentale, ma è necessario farlo utilizzando le parole giuste

Al contrario, l’espressione “persona con disabilità” lascia intendere che la persona possiede molteplici tratti e che la disabilità è solo uno di essi. Di conseguenza diremo persone cieche, persone non vedenti o persone con disabilità visiva invece di cechi; persona con autismo o persona autistica invece di autistico e così via.

Oltre il genere binario

A non sentirsi rappresentate nella lingua italiana sono anche le cosiddette persone non-binary, ovvero quelle persone che non si riconoscono nella costruzione binaria del genere.

La necessità è quella di esprimersi attraverso un genere neutro, caratteristica che la lingua italiana non possiede. Negli ultimi anni, proprio a ragion di ciò, sono state avanzate delle proposte che si pongono l’obiettivo di superare l’ostacolo e aiutare queste persone a fare cose scontate, come ad esempio descriversi o qualificarsi.

Il linguaggio inclusivo permette di superare la visione binary uomo donna
Le persone non binary spesso non si sentono rappresentate nei discorsi

Se da una parte alcune persone non binarie preferiscono mescolare maschile e femminile, dall’altra c’è chi utilizza la u come vocale finale – Ciao a tuttu -, chi ha scelto la via della ə – Ciao a tuttə -, chi ricorre all’asterisco – Ciao a tutt*.

Si tratta di una possibilità poiché, come sappiamo bene, la lingua italiana si basa sulla distinzione sessuale binaria e cambiare la sua struttura richiede un lungo lavoro. Al tempo stesso sappiamo che in questo modo stiamo lanciando un segnale alla comunità dei parlanti, ovvero la volontà di includere.

Linguaggio e pregiudizi

Impossibile negare che a volte ci troviamo davanti a parole, frasi o espressioni dalla dubbia interpretazione. A chi non è capitato, almeno una volta, di utilizzare un termine e subito dopo pensare: “Oh no, ma io non intendevo quello!”.

La nostra lingua raccoglie al suo interno una serie di termini che, sulla base di come sono utilizzati nel tempo, sono carichi di significati aggiunti o, addirittura, hanno smesso di essere funzionali in alcuni contesti.

Linguaggio inclusivo e pregiudizi: il caso delle parole rom e nomade
Scegliere le parole giuste aiuta a non alimentare stereotipi e pregiudizi

Si pensi, ad esempio, ai termini rom e nomade. Sul vocabolario Treccani alla voce nomade si legge:

nòmade agg. e s. m. e f. [dal lat. nomas -ădis, gr. νομάς -άδος, propr. «che pascola, che va errando per mutare pascoli», dal tema di νέμω «pascolare»]. – 1. Di gruppo etnico (e suoi appartenenti) che pratica il nomadismo: popolo, stirpe, tribù n., pastori n.; come sost. (spesso riferito, in partic., agli zingari): una tribù, una carovana, un accampamento di nomadi. Per estens., di ciò che è caratteristico delle popolazioni nomadi: fare vita nomade. 2. fig. Di persona o gruppo che non ha fissa dimora e muta frequentemente residenza, o che si sposta continuamente da un luogo a un altro (anche per motivi inerenti all’attività svolta): essere, sentirsi un n.; una compagnia di (artisti) nomadi.

Oggi sappiamo bene che il termine nomade ha perso il suo significato originale e viene spesso utilizzato per connotare negativamente le persone di etnia Rom che vivono nel nostro paese. Quante di loro sono davvero nomadi? Nella maggior parte dei casi, e soprattutto in relazione al fenomeno degli immigrati di seconda generazione, ci troviamo davanti a persone che non hanno mai vissuto il nomadismo nella loro vita. Pertanto il termine nomade, così come accade per zingaro, evoca un’idea di degrado e pericolo per la sicurezza della cittadinanza.

La stessa parola Rom, infine, viene utilizzata spesso con funzione dispregiativa, alludendo non alla nazionalità ma a persone violente e pericolose. Un uso scorretto di questi termini ha portato ad una correlazione inesistente, ovvero quella tra nazionalità Rom e persone pericolose, evocando sentimenti di razzismo nella collettività.

Essere consapevoli di come evolve la nostra lingua, di quali significati si nascondono dietro determinate parole, di come la collettività percepisce determinati discorsi è fondamentale per comunicare senza escludere.

Saper comunicare utilizzando un linguaggio inclusivo non è l’obiettivo da raggiungere, quanto piuttosto un processo che dura una vita. La lingua, infatti, è in costante mutamento e risente fortemente del contesto sociale e dell’utilizzo che di essa fanno i parlanti. Se da una parte non potremo affermare di aver raggiunto il nostro scopo, dall’altra possiamo prepararci ad accogliere i cambiamenti e a rivedere le nostre abitudini linguistiche ogni qualvolta ce ne sarà bisogno

Intervista a Elena Travaini: la disabilità non è un limite

Elena Travaini e il marito Antony | Foto Cristian Palmieri - progetto Donne fuori dall'ombra

Per la rubrica Interviste Gentili facciamo quattro chiacchiere con Elena Travaini, ballerina professionista, insegnante di danza, formatrice, TEDx Speaker, ideatrice del progetto Blindly Dancing, colpita a soli 20 giorni dalla nascita da un raro tumore alla retina – il retinoblastoma bilaterale che le ha causato la cecità, lasciando sul suo viso segni evidenti della malattia.

Foto di copertina © Cristian Palmieri – Donne fuori dall’ombra

Abbiamo chiesto a Elena Travaini di raccontarci la sua storia perché il suo trascorso e i suoi traguardi sono un condensato di emozioni diverse. Paura, rabbia, tristezza e amarezza l’hanno accompagnata durante gli anni dell’adolescenza, ma non hanno avuto la meglio. La sua grande rivincita è arrivata quando in lei si è fatta strada una nuova consapevolezza, quella che l’ha portata a vedere la sua diversità come unicità.

Ci siamo incontrate online, in una stanza virtuale e abbiamo chiacchierato a lungo, sviscerando temi a noi molto cari. Diversità, inclusione, cyberbullismo e violenza online, perché proprio lei è una delle tante vittime di quegli episodi di hate speech che ogni giorno si consumano in rete. Ad Elena abbiamo rivolto domande dirette e mirate, lasciando a lei la possibilità di addentrarsi o meno nei dettagli. Siamo partite dall’intento di capire chi fosse Elena, la persona, la ragazza di tutti i giorni che ha scelto di percorrere una strada non di certo in discesa.

Elena Travaini | Progetto fotografico Sotto la corazza
Elena Travaini in posa per il progetto fotografico Sotto la Corazza – Body Painter Silvia Gozzi

Elena iniziamo subito con una domanda facile. Chi è Elena Travaini?

Mi piace dare un messaggio positivo: in primis sono la mamma di una pargoletta di 13 anni e questo è il lavoro che mi rende più orgogliosa. Sono una mamma giovane, le amiche di mia figlia mi adorano e saccheggiano il mio armadio. Poi sono una moglie e anche questo non è un lavoro da poco. Mio marito è anche il mio partner di ballo e proprio con lui è nato il progetto di sperimentazione della danza al buio “Blindly Dancing”. Siamo entrambi insegnanti diplomati ANMB (Associazione Nazionale Maestri di Ballo) e AIMB (Associazione Italiana Maestri di Ballo). Sono una ballerina professionista, insegnante di danza e ideatrice del metodo sperimentale di insegnamento di danza al buio. Proprio grazie a questo metodo di insegnamento sono diventata una formatrice e nel 2017 ho vinto il premio TOYP come eccellenza italiana nel campo della crescita personale. Nell’ultima fase della mia vita sono diventata anche una modella e una fotomodella, un’esperienza attraverso la quale l’utilizzo dell’immagine serve a veicolare un messaggio positivo. Nonostante il bullismo, nonostante gli insulti e nonostante i momenti “no” si può trovare il modo per andare avanti e credere in se stessi, superando le difficoltà che si presentano. In tal senso i miei progetti fotografici toccano diversi temi e abbracciano la diversità sotto molti punti di vista. Lavoro spesso con una make up artist professionista, Silvia, e il nostro obiettivo è quello di raccontare una bellezza reale, lontana da immagini artefatte dei quali i social sono davvero pieni. Ogni mattina, però, lavoro in clinica veterinaria come segreteria, un lavoro che mi piace tantissimo. Nel pomeriggio invece, sempre con Silvia, mi dedico ai laboratori per ragazzi con disabilità e fragilità.

Come nascono i tuoi progetti? E perché?

Sotto la corazza, ad esempio, è un progetto fotografico di nudo artistico che ho condiviso con Gioele, un ragazzo omosessuale, e che ha l’obiettivo di accendere una riflessione sul fenomeno dell’hate speech. Durante il lockdown ho partecipato a circa 60 interviste e ho attivato anche un salotto virtuale sulla mia pagina Instagram. Non sono mai mancati nei miei confronti gli insulti da parte degli haters. Spesso commentano i miei post e le mie foto, così come accade ed è accaduto a Gioele. Un giorno abbiamo deciso di stilare una lista di tutti gli insulti ricevuti e di tradurli in tutte le lingue del mondo, o quasi. Da lì il passo è stato breve ed è nato così questo progetto fotografico “work in progress”.

Il progetto di danza al buio Blindly Dancing invece, nasce da una sperimentazione e dalla mia situazione personale. La danza è stato il mezzo attraverso il quale mostrarmi agli altri per un talento e non essere vista sempre come la diversa. Ho sempre voluto coltivare la passione per la danza. Quando ho incontrato Antony abbiamo iniziato a studiare seriamente i balli di coppia. Venivamo entrambi da un percorso di studi nel mondo della danza iniziato a 6 anni, ma proprio durante il periodo agonistico sono nate delle difficoltà oggettive. Ad esempio la paura di andare a sbattere o che qualcuno potesse, di proposito, venirti addosso. Stavo andando in crisi e così Antony mi ha detto “devo capire, devo capire com’è ballare senza vedere” e ha deciso di mettere una benda sui suoi occhi. Da lì è nato tutto, si è creato un grande feeling, abbiamo imparato a gestire il corpo senza vedere, ma solo sentendolo.

Elena Travaini fotografata da Costanzo D'Angelo
Elena Travaini fotografata da Costanzo D’Angelo – Abito dipinto a mano da Gaia Proietti Colonna – Make Up Artist Silvia Gozzi

Io sono nata con il retinoblastoma e mia madre si è accorta di questo che io avevo 20 giorni. Il mio è un caso rarissimo, sono stata tre anni in Olanda dove ho trovato un dottore che mi ha salvata. Avrei dovuto subire l’asportazione degli occhi, ma grazie alla chemioterapia e alla radioterapia sono riusciti a preservarli.  Nonostante questo dal destro vedo meno di 1/30, dal sinistro non vedo per niente. Inoltre, le cure fatte non hanno permesso alla cartilagine intorno agli occhi di crescere. Nel 2014 è nato il progetto Blindly Dancing e nel 2016 abbiamo vinto il concorso Ballando on the road e abbiamo portato la nostra performance a Ballando con le StelleNel 2018 siamo stati contattati da una business school di New York e abbiamo portato la danza la buio in America. Nel frattempo abbiamo portato il progetto sulle navi da crociera e nelle piazze delle città più belle d’Europa. Oltre 250.000 persone hanno sperimentato la danza al buio nel mondo, senza distinzione di razza, sesso, colore, nelle scuole, nelle aziende e in qualsiasi posto si possa fare tale sperimentazione.

Hai avuto esperienze di odio online/hate speech? 

L’hate speech può essere molto lesivo se non si ha un carattere forte; tutti i miei progetti si collegano alla volontà di dimostrare come si può superare questo fenomeno. Se da una parte le persone hanno bisogno di un esempio come me, dall’altra io ho bisogno degli altri. Sono gli altri, senza averne consapevolezza, ad accompagnarmi nel mio percorso di crescita personale: ho creato un’immagine perché ero davvero stanca delle prese in giro. Questa stessa immagine mi porta a lottare per i miei sogni, i miei obiettivi, i traguardi futuri. Ho sempre avuto una famiglia che mi ha difesa, ma ogni giorno in cui metto il naso fuori casa incontro qualcuno che mi fa pesare la mia diversità. Da ragazzina mi pesava di più essere diversa; l’accettazione della femminilità è stata difficile. Ho vissuto la fase dell’adolescenza in apparenza con molta tranquillità, sono stata sempre leader anche se spesso non riuscivo a fare le cose che facevano tutte, come ad esempio truccarsi. A scuola ho sempre guidato le rivolte, piuttosto che seguire le maestre. Ho sempre cercato di creare un gruppo e di tenere le persone unite. Ovviamente a casa e davanti allo specchio il rapporto con me stessa era molto diverso; in alcuni casi non ci pensi, altre volte in compagnia di altre ragazze mi rendevo conto che ero diversa. 

Elena Travaini fotografata da Barbara Fiorenzuola
Elena Travaini fotografata da Barbara Fiorenzuola – Make Up Artist Silvia Gozzi – Hair Stylist Rosi Cauteruccio

Qual è la cosa che ti ferisce di più?

La cosa che ferisce di più è l’ignoranza degli adulti. Una sera mentre ballavo con Anthony sono stata derisa proprio da persone adulte. Da allora ho iniziato a raccontare la mia storia sui social. Difficilmente rispondo all’odio con l’odio, il mio papà mi ha insegnato che chi ti attacca ha dei grandi problemi. I social sono pieni di gente stupida, ma questo non ne giustifica un ipotetico utilizzo scorretto. Ci sono giorni in cui mi sento più sicura di me stessa, altri in cui mi sento più fragile. La diversità convive con me, a volte ho paura di non farcela, mi vedo brutta, non vorrei alzarmi dal letto. Pormi grandi obiettivi è il motore che mi fa andare avanti, ma questo non lo faccio mai da sola. Oltre i progetti ho anche una vita e i problemi ordinari: una figlia, la scuola, la casa, l’ex marito, la famiglia dell’ex marito, il marito e così via. Mio marito è l’unica persona che mi capisce al volo perché quando sto male non parlo.

Qual è il consiglio gentile che vuoi lasciare? 

Da soli si cammina, in due si vola. È importante non essere da soli. Se si sogna da soli è solo un sogno, se si sogna insieme è la realtà che comincia. Le persone sono fondamentali: le cose si creano quando le persone si aiutano.

Non poteva lasciarci con un messaggio più bello di questo Elena. Condividere ha un valore inestimabile, non trovi? Per conoscerla meglio e non perdere i suoi progetti puoi seguirla su Instagram, la trovi digitando @elenatravainiblindmodel.

Se questa intervista ti è piaciuta ti invitiamo a condividerla attraverso i tuoi canali social e tra le persone che conosci. Ci aiuterai a diffondere pratiche gentili e ad ostacolare l’hate speech. 

Vuoi dirci la tua? Lascia un commento, non vediamo l’ora di leggerlo!

La Scuola di Comunicazione Gentile ospite di Super J

La Scuola di Comunicazione Gentile ospite di Super J

Un invito al quale non potevamo dire no è quello arrivato dalla redazione di Super J, l’emittente televisiva in onda sul digitale terrestre al canale 634 in Abruzzo e in streaming, sul loro sito web. Abbiamo colto l’occasione per incontrarvi e raccontarvi live che cos’è la Scuola di Comunicazione Gentile, ma anche tutto ciò che si nasconde dietro le nostre proposte formative.

La nostra scuola, che nasce da una condivisione di intenti, ovvero diffondere pratiche gentili e consapevoli nella gestione dei rapporti interpersonali online e offline, muove i suoi primi passi nel 2019. In sinergia con Hi-Storia, progetto di design partecipativo e diffuso sulla divulgazione del patrimonio culturale, abbiamo incontrato gli studenti del Liceo M. Curie di Giulianova e portato avanti con loro un percorso dedicato all’educazione digitale.

Dall’esperienza sul campo, finalizzata a contrastare bullismo e cyberbullismo, è nato uno dei nostri percorsi formativi dedicato alla realizzazione del Manifesto della Comunicazione Gentile. Si tratta del documento che più di ogni altro ci contraddistingue e che invitiamo a redigere nelle aule, ma anche nei contesti aziendali e in tutte quelle situazioni nelle quali si generano relazioni.

Lo leggiamo insieme durante la puntata che abbiamo il piacere di condividere con voi e se siete curiosi di saperne di più non esitate a contattarci! 

Vi aspettiamo!

Bullismo e Cyberbullismo a scuola

La Scuola di Comunicazione Gentile, nel condividere modelli e buone prassi nella gestione dei rapporti interpersonali, si trova con consuetudine a parlare di bullismo e cyberbullismo a scuola.

Un tema di grande attualità sul quale il confronto e la consapevolezza sembrano non essere mai abbastanza. Abbiamo voluto, così, ripercorrere la nascita e lo sviluppo del problema, con l’obiettivo di arrivare a delineare lo stato dell’arte anche dal punto vista legislativo, per capire a che punto siamo oggi su un argomento tanto delicato quanto pervasivo.

Un’azione che ha come fine ultimo quello di fare chiarezza, permettendo a chiunque – genitori, insegnanti e adolescenti – di conoscere e approfondire. Senza dare nulla per scontato, perché ci piace pensare che nella vita c’è sempre una prima volta.

Bullismo e Cyberbullismo: di cosa si tratta?

Partire dalla definizioni è sempre una buona abitudine, ci aiuta ad entrare nel vivo dell’argomento e ci permette di conoscere il significato attribuito a un determinato termine nella società in cui viviamo.

A dare una spiegazione di bullismo e cyberbullismo sono tantissimi: si va dai numerosi dizionari di lingua italiana ai testi accademici, riviste di settore e siti web che trattano l’argomento e temi affini. È bene ricordare, però, che a coniare il termine bullismo è stato un educatore canadese di nome Bill Belsey nel 2002. Dopo quattro anni quanto definito da Belsey fu ripreso da Peter K. Smith e dai suoi collaboratori, i quali proposero anche una definizione di cyberbullismo, coerente con quella di bullismo.

A titolo di esempio abbiamo scelto le definizioni condivise da Treccani, vocabolario online, e dal MIUR, Ministero dell’Istruzione e della Ricerca.

Secondo Treccani la parola bullismo, che deriva da bullo, delinea un preciso comportamento tipico di quest’ultimo. Le caratteristiche principali che contraddistinguono il bullo sono la spavalderia, l’arroganza e la sfrontatezza, nonché il suo atteggiamento di sopraffazione. Lo esercita sui più deboli attraverso violenze fisiche e psicologiche attuate soprattutto negli ambienti scolastici.

La definizione del MIUR, concorde con la precedente, introduce due nuovi elementi: la figura della vittima e la definizione di cyberbullismo. Se il bullismo è un fenomeno caratterizzato da azioni violente e intimidatorie esercitate da un bullo – o un gruppo di bulli – su una vittima, il cyberbullismo non è altro che la manifestazione in rete di tale fenomeno.

Le azioni possono riguardare molestie verbali, aggressioni fisiche e persecuzioni, generalmente attuate in ambiente scolastico.

Quanto appreso ci mette in guardia su due aspetti in particolare: da una parte anche la scuola, istituzione dedicata alla formazione di ragazzi e ragazze dai primi anni d’età fino al raggiungimento della maturità, può diventare un luogo non sicuro; dall’altra che la diffusione della tecnologia consente ai bulli di entrare nelle case delle vittime, materializzandosi in qualunque momento della loro vita.

Le persecuzioni diventano a-temporali e vengono attuate mediante messaggi, immagini e video offensivi, condivisi in rete o inviati tramite smartphone.

Manifestazioni e caratteristiche del Bullismo a scuola

Le azioni di violenza esercitate dal bullo, o dal gruppo di bulli, nei confronti della vittima possono essere di diverso tipo. A tale proposito possiamo distinguere 4 tipologie di violenza:

  • fisica, in questo caso vi è una vera e propria azione diretta da parte del bullo sulla vittima. Sono esempi ricorrenti le bruciature di sigaretta, i tagli, i calci e i pugni, le percosse di vario genere;
  • fisica priva di contatto, dove l’obiettivo è quello di invadere e ledere lo spazio emotivo e psicologico della vittima. Quest’ultima si sente presa di mira attraverso sguardi intimidatori, occhiate, smorfie e gesti che tentano di ridicolizzarla;
  • verbale, un tipo di violenza caratterizzata dall’uso improprio della parola. Il linguaggio che il bullo utilizza nei confronti della vittima è offensivo, mettendo a rischio la sua reputazione sul piano sessuale, familiare, economico, etnico e religioso;
  • sessuale, veri e propri comportamenti che agiscono nell’intimo, facendo sentire la vittima in forte imbarazzo e a disagio. Nella sua mente ricorrono sentimenti di vergogna e fastidio.

Ad ogni modo ci sono alcune caratteristiche che permettono di classificare atteggiamenti e manifestazioni come episodi di bullismo:

  • l’intenzionalità, il bullo premedita i comportamenti aggressivi che mette in atto contro la vittima;
  • la persistenza, gli atteggiamenti di prepotenza che il bullo esercita sulla vittima solitamente si protraggono nel tempo;
  • la differenza di potere, il bullo, spesso supportato anche dai suoi compagni, è più forte della vittima che, al contrario, non è in grado di difendersi;
  • la natura sociale, gli episodi di bullismo avvengono quasi sempre alla presenza di spettatori e complici.

Le forme del Cyberbullismo

In un libro dal titolo “Il disagio adolescenziale. Tra aggressività, bullismo e cyberbullsimo”, scritto da Zbigniew Formella e Alessandro Ricci, i due autori condividono una classificazione del cyberbullismo che riportiamo nella tabella di seguito.

TIPOLOGIE DI CYBERBULLISMO
Flaming: invio di messaggi insultanti finalizzati a suscitare dispute on-lineOuting: rivelare informazioni personali e riservate riguardanti una persona
Cyber-stalking: persecuzione tramite l’invio ripetuto di minacceEsclusione: escludere intenzionalmente una vittima da un gruppo on-line
Denigrazione: pubblicazione di pettegolezzi o di immagini imbarazzanti sulla vittima, danneggiando la reputazione e i rapporti socialTrickery: spingere il soggetto, attraverso l’inganno, a rivelare informazioni spiacevoli e private per renderle successivamente pubbliche in rete
Sostituzione dell’identità: il bullo viola la password di una persona e, fingendosi lei, invia per esempio messaggi malevoli ai contatti della vittima, rovinando l’immagine abituale della vittima stessa;Harassment: molestie perpetuate tramite canali di comunicazione di massa con azioni, parole e comportamenti persistenti indirizzati verso una singola persona, che causano disagio emotivo e psichico
Happy slapping: registrare, a insaputa della vittima, video durante i quali quest’ultima subisce violenze psichiche e fisiche per poi diffonderli in rete

Possiamo osservare quanto sia vera l’affermazione “virtuale non è il contrario di reale”, elaborata e trasformata in uno dei punti del nostro Manifesto della Comunicazione Gentile.

Vogliamo invitare adolescenti e adulti a riflettere sul valore delle relazioni: reali o mediate da strumenti tecnologici, queste ultime hanno la medesima importanza. Pertanto, atteggiamenti offensivi e denigranti nei confronti dell’altro possono provocare danni concreti anche se esercitati attraverso uno smartphone o un computer.

Differenze tra Bullismo e Cyberbullismo

Come abbiamo avuto modo di notare, il cyberbullismo non è altro che una manifestazione del più ampio bullismo. Ma tra i due fenomeni esistono delle differenze sostanziali.

Le riportiamo nella tabella sottostante, condivisa anche dal MIUR.

BULLISMOCYBERBULLISMO
Il bullo è in classe, si conosceIl bullo può essere ovunque
chiunque è anonimo
le azioni di svolgono nel contesto scolastico (classe o tragitto casa-scuola e viceversa)I contenuti possono essere diffusi in tutto il mondo, 24 ore su 24
Il bullo utilizza la forza fisicaIl cyberbullo agisce virtualmente, senza bisogno di forza
Il gruppo classe e i docenti possono limitare le azioni del bulloNessuno interviene tra il bullo e la vittima
Il bullo vede le reazioni della vittima e questo potrebbe aiutarlo a cambiare atteggiamentoIl cyberbullo non ha possibilità di maturare consapevolezza delle proprie azioni

Bullismo, Cyberbullismo e legislazione

Bullismo e cyberbullismo, come già accaduto, possono portare le vittime al suicidio. In particolare la sovraesposizione mediatica, che li obbliga a fare i conti con la rappresentazione del sé in ambiti virtuali, li espone a reazioni estreme.

L’importanza di tutelare i giovani da tali fenomeni è testimoniata anche da alcuni interventi legislativi atti a contrastare fenomeni di bullismo e cyberbullismo. Ricordiamo che durante l’adolescenza avviene la costruzione della propria identità, un processo fatto di scelte continue che genera preoccupazioni, paure e difficoltà.

Nello specifico è bene sapere che fino ad ora sono stati due i provvedimenti in tale direzione:

  • Legge 107/2015 “La Buona Scuola”: nell’articolo 1, comma 7 si legge prevenzione e contrasto della dispersione scolastica, di ogni forma di discriminazione e del bullismo, anche informatico;
  •  Legge 71/2017 “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”: nell’articolo 1 si legge la presente legge si pone l’obiettivo di contrastare il fenomeno del cyberbullismo in tutte le sue manifestazioni, con azioni a carattere preventivo e con una strategia di attenzione, tutela ed educazione nei confronti dei minori coinvolti, sia nella posizione di vittime sia in quella di responsabili di illeciti, assicurando l’attuazione degli interventi senza distinzione di età nell’ambito delle istituzioni scolastiche. Inoltre, l’articolo 4 comma 2 e 3 prevedono “la promozione di un ruolo attivo degli studenti, nonché di ex studenti che abbiano già operato all’interno dell’istituto scolastico in attività di peer education, nella prevenzione e nel contrasto del cyberbullismo nelle scuole”; “Ogni istituto scolastico, nell’ambito della propria autonomia, individua fra i docenti un referente con il compito di coordinare le iniziative di prevenzione e di contrasto del cyberbullismo”.

Tutto questo non dovrebbe stupirci: il 28 Luglio 2015 è stata approvata la Dichiarazione dei diritti in internet elaborata dalla Commissione per i diritti e i doveri relativi ad Internet a seguito della consultazione pubblica, delle audizioni svolte e della riunione della stessa Commissione del 14 luglio 2015. L’obiettivo è senza dubbio quello di garantire a ciascun individuo l’esercizio di una cittadinanza digitale attiva nel rispetto della libertà, della dignità e della diversità di ogni persona.

Internet e le nuove tecnologie digitali possono essere una risorsa per alimentare curiosità, conoscenze e apprendimento. È necessario che adolescenti e adulti ne conoscano caratteristiche e potenzialità, ma anche aspetti negativi. Solo in questo modo potranno difendersi da questi ultimi e utilizzare i loro smartphone e computer in modo positivo e propositivo.